sabato 30 giugno 2018

Chisinau-Sarajevo


L’inizio vero e proprio del viaggio è rappresentato dalla preparazione dello zaino, è il momento in cui ti trovi a decidere che cosa portare, cosa lasciare, cosa reputare indispensabile e cosa superfluo. E mentre si consuma il rituale del bagaglio si materializzano le aspettative, le paure e l’attesa per la partenza diventa quasi insopportabile. La meta è certa, è Sarajevo, il tragitto quindi Chisinau-Vienna-Sarajevo.

Non parto sola, i compagni di viaggio sono piuttosto insoliti, otto adolescenti moldavi provenienti da Chisinau (capitale della Repubblica Moldova) e dai villaggi limitrofi. Sono i volontari dell’associazione in cui lavoro, volontari che nel corso dei mesi si sono fatti il mazzo con dedizione e devozione, al punto che spesso con la collega di servizio civile ci siamo trovate a sollecitarli  ad andare a casa alla fine delle attività, accompagnandoli letteralmente alla porta. Il viaggio  per i volontari è il  riconoscimento per l’impegno dimostrato nel corso dei mesi, per alcuni nel corso degli anni, per l’associazione significa dare loro l’opportunità di uscire dal paese, prendere un aereo per la prima volta, fare una vacanza e vivere un’ esperienza di incontro. 
È capovolgere il paradigma per cui “l’estero”, “l’altrove” non sono solo mete di emigrazione ma anche di scambio e riscoperta.




La meta è certa, Sarajevo, non un luogo a caso, non un luogo di facile lettura, luogo di fratture  e suture. La partenza è già di per sé evento, il piccolo aeroporto di Chisinau con un sottofondo di lavori in corso ci congeda assieme al saluto dei genitori con il vestito buono ed il selfie di gruppo d’ordinanza.

Sarajevo ci accoglie con un freddo inaspettato e una pioggerellina sottile, sembra autunno. I ragazzi sono colti di sorpresa dal canto del Muezzin, per tutti è la prima volta e chiedono immediatamente spiegazioni, è un inizio in media res. L’intreccio di culture e di storia li investe e da subito iniziano a capire la complessità e la bellezza della terra che li ospita, le informazioni della formazione pre-partenza prendono forma, consistenza ed assumono colori, volti e storie. A traghettarci in questa scoperta sono i ragazzi dell’associazione bosniaca “Youth for peace”, ragazzi di confessioni religiose e gruppi etnici diversi che assieme svolgono attività di volontariato promuovendo il dialogo interreligioso in un’ottica di riconciliazione. Sono tante le emozioni che in questi primi giorni ci coinvolgono, il War Childhoodmuseum ci colpisce dritti allo stomaco, tocca le nostre corde più deboli ed ancora una volta ci mette di fronte alla storia di questa terra.
Il museo è una raccolta di giochi, portafortuna e ricordi dei bambini cresciuti durante la guerra in Bosnia, ci sono un peluche, un abbecedario,un portapenne, involucri di cioccolato, gli oggetti parlano attraverso una didascalia, sono le esperienze e le storie dei piccoli proprietari… Il primo oggetto in mostra è però il cappottino di una bimba siriana è di panno verde e la taglia è piccola, molto piccola.  Allargo lo sguardo ai miei otto compagni di viaggio e li vedo commuoversi,all’uscita del museo ci  scambiamo le impressioni e le sensazioni e mi sembrano diversi da quegli otto che al mattino chiedevano insistentemente di connettere Justin Bieber e Ed Sheeran al cavetto della “Volkswagen Combi”.



La fedele “Combi”ci accompagna tra le strade di Sarajevo, è un saliscendi non indifferente, saliamo fino al monte Trebevic (postazione di lancio dei colpi di mortaio durante l’assedio) per poi scendere verso la città. I cellulari dei ragazzi sembrano impazziti, c’è un’altra prima volta o quasi da immortalare, le montagne. Il numero di scatti è impressionante, le foto vengono inviate la sera alle famiglie che aspettano la cronaca della giornata. Il nostro viaggio assume una dimensione collettiva, la nostra esperienza raggiunge i villaggi della Moldova e i luoghi della diaspora moldava, ci sentiamo a metà tra Neil Armstrong e il carosello serale. I genitori e i nonni rimasti in Moldova sono parte del viaggio, è un racconto intergenerazionale.

I volontari di “Youth for Peace”, ci prendono e per mano e con loro visitiamo la Gazi- Husrev- beg Mosque, è un’altra prima volta emozionante, di quelle che ti spiazzano, le pareti dipinte, la quiete e il tono gioviale dell’imam, leggo negli occhi dei ragazzi una sensazione di spaesamento, non è quello che si aspettavano, l’incontro non corrisponde all’immaginario. A rendere il tutto più surreale è Emina, indossa un paio di Stan Smith bianche, dei jeans a sigaretta e una t-shirt  con la stampa “I’m a vegeterian”, ci spiega della sua religione, è una di turbomuslim (mussulmana praticante) femminista e vegetariana, è un ossimoro in carne ed ossa, parla a mitraglia e non riusciamo a staccarle gli occhi di dosso. Ci guarda dritta negli occhi consapevole di tutti i nostri pregiudizi, sorride e risponde a mitraglia a tutte le nostre domande, metà delle quali inopportune; siamo curiosi, ascoltiamo disorientati e ancora una volta ci ritroviamo un po’ cambiati.

Attraversiamo Sarajevo, dalla parte ottomana a quella Austro-ungarica, siamo lenti, molto lenti guardiamo le vetrine, ci sono le catene dei negozi di abbigliamento, oltrepassiamo Mango, più avanti c’è Zara, sorrido tra me e me..sembriamo dei campagnoli. 
È  tempo di un’altra prima volta la cattedrale cattolica e la sinagoga. 


Per tre pomeriggi di fila siamo impegnanti con la distribuzione dei pasti ai migranti accampati in Stazione centrale (da Gennaio infatti si è riaperta la rotta balcanica questa volta passa dalla Bosnia), ci sono anche dei bambini. I ragazzi si infilano i guanti ed assieme ad altri volontari si danno da fare, ascoltano le indicazioni dei volontari più esperti ed iniziano a consegnare i pasti. Alcuni di loro parlano inglese e comunicano con le persone in coda. Alla fine del servizio A.e J. mi raccontano che hanno fatto amicizia con alcuni ragazzi afgani, mi raccontano la storia di queste persone e sono molto provati,  né A e J né i ragazzi afgani parlano inglese e non riesco a capire in quale lingua possano essersi parlati «Abbiamo parlato in russo! »mi dicono candidamente. 


Li guardo e sono due diciassettenni provenienti dalla Moldova  e due ragazzi afgani che si raccontano e scambiano informazioni in russo di fronte alla stazione dei treni di Sarajevo.
Saliamo nella nostra Combi, piove e concedo senza fiatare il cavetto per la musica, posso senza dubbio sopportare un’altra compilation di Ed Sheeran.

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