L’inizio vero e proprio del viaggio è rappresentato dalla
preparazione dello zaino, è il momento in cui ti trovi a decidere che cosa
portare, cosa lasciare, cosa reputare indispensabile e cosa superfluo. E mentre
si consuma il rituale del bagaglio si materializzano le aspettative, le paure e
l’attesa per la partenza diventa quasi insopportabile. La meta è certa, è
Sarajevo, il tragitto quindi Chisinau-Vienna-Sarajevo.
Non parto sola, i compagni di viaggio sono piuttosto
insoliti, otto adolescenti moldavi provenienti da Chisinau (capitale della
Repubblica Moldova) e dai villaggi limitrofi. Sono i volontari dell’associazione
in cui lavoro, volontari che nel corso dei mesi si sono fatti il mazzo con
dedizione e devozione, al punto che spesso con la collega di servizio civile ci
siamo trovate a sollecitarli ad andare a
casa alla fine delle attività, accompagnandoli letteralmente alla porta. Il
viaggio per i volontari è il riconoscimento per l’impegno dimostrato nel
corso dei mesi, per alcuni nel corso degli anni, per l’associazione significa
dare loro l’opportunità di uscire dal paese, prendere un aereo per la prima
volta, fare una vacanza e vivere un’ esperienza di incontro.
È capovolgere il paradigma per cui “l’estero”, “l’altrove” non sono solo mete di emigrazione ma anche di scambio e riscoperta.
È capovolgere il paradigma per cui “l’estero”, “l’altrove” non sono solo mete di emigrazione ma anche di scambio e riscoperta.
La meta è certa, Sarajevo, non un luogo a caso, non un
luogo di facile lettura, luogo di fratture
e suture. La partenza è già di per sé evento, il piccolo aeroporto di
Chisinau con un sottofondo di lavori in corso ci congeda assieme al saluto dei
genitori con il vestito buono ed il selfie di gruppo d’ordinanza.
Sarajevo ci accoglie con un freddo inaspettato e una pioggerellina
sottile, sembra autunno. I ragazzi sono colti di sorpresa dal canto del Muezzin,
per tutti è la prima volta e chiedono immediatamente spiegazioni, è un inizio
in media res. L’intreccio di culture e di storia li investe e da subito iniziano
a capire la complessità e la bellezza della terra che li ospita, le
informazioni della formazione pre-partenza prendono forma, consistenza ed
assumono colori, volti e storie. A traghettarci in questa scoperta sono i
ragazzi dell’associazione bosniaca “Youth for peace”, ragazzi di confessioni
religiose e gruppi etnici diversi che assieme svolgono attività di volontariato
promuovendo il dialogo interreligioso in un’ottica di riconciliazione. Sono
tante le emozioni che in questi primi giorni ci coinvolgono, il War Childhoodmuseum ci colpisce dritti allo stomaco, tocca le nostre corde più deboli ed
ancora una volta ci mette di fronte alla storia di questa terra.
Il museo è una
raccolta di giochi, portafortuna e ricordi dei bambini cresciuti durante la
guerra in Bosnia, ci sono un peluche, un abbecedario,un portapenne, involucri
di cioccolato, gli oggetti parlano attraverso una didascalia, sono le esperienze
e le storie dei piccoli proprietari… Il primo oggetto in mostra è però il
cappottino di una bimba siriana è di panno verde e la taglia è piccola, molto
piccola. Allargo lo sguardo ai miei otto
compagni di viaggio e li vedo commuoversi,all’uscita del museo ci scambiamo le impressioni e le sensazioni e mi
sembrano diversi da quegli otto che al mattino chiedevano insistentemente di
connettere Justin Bieber e Ed Sheeran al cavetto della “Volkswagen Combi”.
La fedele “Combi”ci accompagna tra le strade di Sarajevo,
è un saliscendi non indifferente, saliamo fino al monte Trebevic (postazione di
lancio dei colpi di mortaio durante l’assedio) per poi scendere verso la città.
I cellulari dei ragazzi sembrano impazziti, c’è un’altra prima volta o quasi da
immortalare, le montagne. Il numero di scatti è impressionante, le foto vengono
inviate la sera alle famiglie che aspettano la cronaca della giornata. Il nostro viaggio assume una dimensione
collettiva, la nostra esperienza raggiunge i villaggi della Moldova e i luoghi
della diaspora moldava, ci sentiamo a metà tra Neil Armstrong e il carosello
serale. I genitori e i nonni rimasti in Moldova sono parte del viaggio, è
un racconto intergenerazionale.
I volontari di “Youth for Peace”, ci prendono e per mano
e con loro visitiamo la Gazi- Husrev- beg Mosque, è un’altra prima volta
emozionante, di quelle che ti spiazzano, le pareti dipinte, la quiete e il tono
gioviale dell’imam, leggo negli occhi dei ragazzi una sensazione di
spaesamento, non è quello che si aspettavano, l’incontro non corrisponde all’immaginario. A rendere il tutto più surreale è Emina,
indossa un paio di Stan Smith bianche, dei jeans a sigaretta e una t-shirt con la stampa “I’m a vegeterian”, ci spiega
della sua religione, è una di turbomuslim (mussulmana praticante) femminista e
vegetariana, è un ossimoro in carne ed ossa, parla a mitraglia e non
riusciamo a staccarle gli occhi di dosso. Ci guarda dritta negli occhi
consapevole di tutti i nostri pregiudizi, sorride e risponde a mitraglia a
tutte le nostre domande, metà delle quali inopportune; siamo curiosi,
ascoltiamo disorientati e ancora una volta ci ritroviamo un po’ cambiati.
Attraversiamo Sarajevo, dalla parte ottomana a quella
Austro-ungarica, siamo lenti, molto lenti guardiamo le vetrine, ci sono le
catene dei negozi di abbigliamento, oltrepassiamo Mango, più avanti c’è Zara,
sorrido tra me e me..sembriamo dei campagnoli.
È tempo di un’altra prima volta la cattedrale cattolica e la sinagoga.
È tempo di un’altra prima volta la cattedrale cattolica e la sinagoga.
Per tre pomeriggi di fila siamo impegnanti con la
distribuzione dei pasti ai migranti accampati in Stazione centrale (da Gennaio
infatti si è riaperta la rotta balcanica questa volta passa dalla Bosnia), ci
sono anche dei bambini. I ragazzi si infilano i guanti ed assieme ad altri
volontari si danno da fare, ascoltano le indicazioni dei volontari più esperti
ed iniziano a consegnare i pasti. Alcuni di loro parlano inglese e comunicano con le persone
in coda. Alla fine del servizio A.e J. mi raccontano che hanno fatto amicizia
con alcuni ragazzi afgani, mi raccontano la storia di queste persone e sono
molto provati, né A e J né i ragazzi
afgani parlano inglese e non riesco a capire in quale lingua possano essersi
parlati «Abbiamo parlato in russo! »mi
dicono candidamente.
Li guardo e sono due diciassettenni provenienti dalla Moldova
e due ragazzi afgani che si raccontano e
scambiano informazioni in russo di fronte alla stazione dei treni di Sarajevo.
Saliamo nella nostra Combi, piove e concedo
senza fiatare il cavetto per la musica, posso senza dubbio sopportare un’altra
compilation di Ed Sheeran.
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