Mi chiamo Teddy Ghiòn, ho 47 anni. Sono nato a Gocha, in Etiopia.
Da bambino lavoravo come contadino, poi ho fatto il soldato per 9 anni sotto il Derg [regime socialista durato dal 1974 al 1991 sotto il colonnello Menghistu].
Quando ero giovane mia mamma è morta.
Mio padre fu impiccato dal Derg; non accettava quel regime e si era rifiutato di diventarne membro.
Io ero il suo unico figlio e dovevo servire il Derg come militare.
Ebbi un’educazione tradizionale, ortodossa, imparai le fidel [unità minima dell’alfabeto amarico]; ho frequentato le scuole fino alla settima classe [corrispondente alla nostra seconda media]. Quando mio padre fu ucciso due soldati mi presero per l’arruolamento forzato.
Col governo attuale, lo Eiadik, feci ritorno alla mia area natale, dove lavorai come contadino: avevo manzi, mucche, pecore e altri animali. Lavorai con lo Eiadik: la comunità di Dagada Amot Farasbat mi scelse perché il Derg aveva ucciso mio padre. Avevo un ufficio mio.
Poi me ne andai in Uellega Nekhmet perché dov’ero prima non stavo bene, non guadagnavo molto.
Ma là venne a cercarmi un uomo di quelli che avevano ucciso mio padre; lo tenni sotto controllo e lo uccisi. Lo stesso giorno arrivarono 6 persone tra suoi fratelli e suoi amici. Avevo un kalashnikov ed ero un bravo soldato: li ammazzai tutti.
Quando i poliziotti mi arrestarono non tentai di scappare: non volevo farlo poiché ritenevo giusto che fossi punito.
Fui condannato all’impiccagione.
Fui detenuto in Nekhallamtega, dove non c’era democrazia e le stanze erano fredde.
Per anni giacqui accovacciato: mi tenevano la mano destra legata ai due piedi.
Secondo me questo è un buon governo: ora c’è una democrazia in Etiopia, anche se non in questa prigione! Durante il Derg potevi uccidere chi volevi come volevi. Quando accusai il Derg dell’omicidio di mio padre, mi commutarono la sentenza in prigione a vita.
Rimasi in Nekhallamtega per 14 anni: lì ero straniero perché io ero originario di Gocha. Per tre anni e mezzo costruii edifici, poi imparai a lavorare il metallo. Realizzai porte e sedie. I dieci anni successivi fui il panettiere della prigione: facevo il pane e lo vendevo. Diventai il leader interno al carcere della Chiesa Ortodossa, ho ottenuto il certificato di insegnamento.
Chiesi di potere essere rilasciato: gli altri prigionieri con la mia identica pena dopo avere domandato perdono furono liberati. Io no. L’unica spiegazione che mi do del loro rifiuto ad una consuetudine legale simile è che le famiglie delle persone uccise pagarono il governo affinché io fossi tenuto in carcere.
Un giorno mi sentii male e in ospedale mi riscontrarono il diabete.
Siccome voglio uscire di prigione ho chiesto di cambiare carcere: i parenti dei miei nemici non vivono qua [nel carcere in cui si trova ora] e non possono influenzare l’amministrazione. Qua ci si aiuta tra prigionieri. Io faccio il pane.
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La religione è fondamentale per la vita, per tutti. Senza la religione non potrei vivere. Se conosci Dio, Lui ti aiuta a distinguere le cose buone da quelle cattive. Prima conoscevo Dio, ma l’ho incontrato davvero in prigione.
Non ho visitatori, ho una famiglia, ma non so più niente di loro. Per sopravvivere alle vendette han dovuto trasferirsi. Dove, non so. Ho provato a scrivergli, a telefonargli, ma non ho mai avuto risposta.
Io appartengo all’etnia Amhara. Le mie vittime all’etnia Amhara e a quella Oromo.
In questa prigione gli amministratori e le guardie vogliono i soldi che guadagno dalla vendita del pane. Tra i prigionieri ho conosciuto molte persone innocenti. La mia speranza è che in settembre il capo amministratore accetti le mie scuse e mi faccia uscire. Se Dio vuole lavorerò in qualsiasi modo; farò qualunque lavoro, senza chiedermi se sia un buon lavoro o no. Non ho bisogno di scegliere un lavoro, mi basta essere libero. Ma tornerò a visitare gli amici che mi sono fatto in prigione: sono miei fratelli.
Se Dio vuole troverò qualcuno che mi darà una mano, come te che vieni qua in prigione ad aiutarci.
Sono pentito di quello che ho fatto e quando uscirò racconterò a tutti del mio crimine e della mia detenzione: ormai sono un esperto di prigioni, so tutto, potrei insegnare la materia “galera”. Per sopravvivere io ho venduto pane. Qua c’è bisogno di vestiti e di scarpe; ma in primo luogo, a tutti, serve la pace. Anche la scuola è importante: la gente deve essere istruita.
È meglio in generale non commettere reati e non esser così incriminati, ma l’istituzione penitenziaria è necessaria in uno Stato perché le persone vivano in pace; ma anche perché il reo stesso trovi la pace.