"Tutto ciò che hai visto ricordalo, perché tutto ciò che dimentichi ritorna a volare nel vento”
Polvere. E terra. Tanta terra. Se chiudo gli occhi la posso vedere ancora davanti a me, con i suoi riflessi dorati e le sue sfumature incerte, che variano inseguendo il corso del sole.
La mia Giordania, in fondo, è proprio questo.
Dico mia perché in tre settimane ho amato e odiato questo spicchio di mondo, questo stralcio di terra che stranamente custodisce la pace, in un Medio Oriente a cui non è dato di trovare pace.
E quando ami e odi qualcosa, quando questi sentimenti si mescolano, inebriandoti, allora puoi star certo che stai vivendo. E non importa quale sentimento alla fine prevarrà, l’importante è che quel “qualcosa” ti abbia toccato nel profondo, così che possa appartenerti per sempre.
La mia Giordania, dunque, non in assoluto, ma per quello che io l’ho vissuta e per quello che, nel bene e nel male, essa mi ha lasciato.
La mia Giordania, dicevo, è terra e polvere.
Strano che, con tutto quello che i miei occhi hanno visto, io mi soffermi proprio su questo dettaglio. Eppure.
Eppure è ciò che più di tutto il resto mi ha colpito, perché ne ho come intravisto un filo conduttore. Un nodo capace di legare a sé tutto quello che ho vissuto e che, per ora, rappresenta un groviglio incerto di emozioni, immagini e suoni.
La terra di cui parlo la vedi anche dall’alto, dall’aereo. E’ un manto che pare stendersi all’infinito, costellato di città e paesi, o meglio: di ammassi informi di edifici. La Giordania è terra di rifugiati e i suoi paesi sono spesso un’evoluzione disorganizzata di antichi campi profughi, che si estendono senza alcuna grazia, fino a lasciare spazio al deserto.
La descrizione delle città meriterebbe un paragrafo a parte. Ci vorrebbero ore per poter descrivere nel dettaglio il caos, i suoni e gli odori delle città arabe. Bisognerebbe soffermarsi sui negozi di frutta e verdura, sui macellai, sull’uomo al crocicchio della strada che non smette di ripeterti “welcome”, sul bambino che cerca di venderti i chewing-gum, sulla donna velata che allontana lo sguardo. Ma soprattutto, bisognerebbe soffermarsi a descrivere la melodia del muezzin: poesia e preghiera che ammalia e affascina.
Ma non è questo di cui voglio parlare. Io voglio parlare della terra. Di quella terra che avvolge le città, e che ti scorre davanti quando viaggi sui pulmini, spostandoti da un luogo all’altro. In queste occasioni l’idea che ti fai è che in Giordania non esistono piante. La Giordania è un Paese senza ombra. Pensarci ti fa sorridere, perché in realtà di ombre, simboliche ed interiori, ce ne sono molte. Sono le ombre dei conflitti che hanno insanguinato il Medio Oriente, e che si fanno vive e concrete nei volti di chi qui ha trovato rifugio. In fondo, la Giordania ha questo pegno da pagare per aver salvaguardato la pace: tutti accorrono ad essa. Prima i Palestinesi, chiamati a scontare la loro “nakba”, la loro “catastrofe”; poi gli Irakeni, in fuga dalle guerre che hanno insanguinato il Golfo; ed ora i Siriani. La Storia, d’altronde, non smette di ripetersi. E nel suo ripetersi porta con sé storie diverse, ma con costanti comuni. Penso a quella donna anziana a cui abbiamo portato visita. Palestinese, “dello stesso paese della regina Ranja”, fuggita nel 1948. I suoi figli sono figli della Giordania, perché qui sono nati, frutto dell’amore con un ragazzo giordano. Perlomeno loro non hanno visto le bombe, come invece hanno fatto i figli di un’altra donna, fuggita da Homs, fuggita da un Paese nel quale i suoi bambini non potevano più giocare per strada.
Ecco, queste sono le ombre che nasconde la terra giordana. Terra che, in fondo, dietro alla sua pace nasconde le sue belle contraddizioni.
Una di queste la posso rivedere in dei divani. Non ci avevo pensato prima d’ora, ma in Giordania mi sono seduta su un’ infinità di divani. Quando vai a fare visita a qualcuno, infatti, stai pur certo che questi troverà un divano su cui farti sedere. E ti capiterà, in quanto occidentale, di far visita a famiglie ricche, con divani bianchi, giardini perfetti, piastrelle luccicanti e piscina annessa. O almeno, a me è capitato. Ti capiterà poi, in quanto volontario, di sederti su divani scuciti, in stanze senza finestre, con i muri scrostati. In questi casi, è probabile che tu debba ascoltare storie per le quali ti sentirai un perfetto imbecille, seduto su quel divano, senza la possibilità concreta di fare qualcosa.
Contraddizioni. O semplicemente differenze. Differenze che convivono e si ignorano, come d’altronde accade qui da noi, nel nostro occidente, che tanto decantiamo come modello di civiltà.
A proposito di Occidente: li vedi gli occidentali in Giordania. D’altronde è inevitabile: si fanno riconoscere. Li vedi passeggiare per Amman e prendere il sole ad Aqaba. Li vedi con i loro pantaloncini, le canottiere e la macchina fotografica al collo: sfiorano la cultura araba, ma non si interrogano su di essa. La loro Giordania coincide con le meraviglie di Petra e con la straordinaria bellezza del Wadi Rum. La terra dei turisti è quella del deserto, che strega, affascina, rapisce. La gran parte di loro se ne tornerà a casa con queste immagini negli occhi, e bon, è stato un bel viaggio.
Eppure in Giordania, come dicevo, esiste altra terra. Esiste la polvere dei marciapiedi e dei cortili di Zarqa, per esempio. Ma è ovvio che da qui non passa nessuno, anche la guida turistica lo sconsiglia vivamente.
Eppure a me è toccato di passarci una settimana.
Alla sera dal balcone si vedevano i bambini giocare fra la polvere e i calcinacci. Per i bimbi musulmani, infatti, la strada coincide con il parco giochi. I bambini cristiani sono più fortunati, hanno l’oratorio, la parrocchia: una lastra di cemento con due canestri, meglio di niente. Peccato poi che quel cortile diventi l’unica dimensione della loro vita sociale: la comunità d’altronde è piccola, bisogna preservarla. E così i cristiani d’oriente si ripiegano su se stessi, si chiudono per paura di vedere cancellata la loro identità.
Devo dire che il loro attaccamento alla fede, talmente forte nella ritualità da divenire soffocante, mi ha sconcertata. Ma d’altronde il mio è uno sguardo occidentale, e per capire è necessario contestualizzare. Provarci almeno.
In ogni caso, non è su questo che volevo soffermarmi, bensì sulla terra di Zarqa. Città enorme, un groviglio di case addossate le une alle altre, vie e vicoli con nomi di re e principi, ma nemmeno una piazza: questa è la seconda città della Giordania. A guardarla, mentre ti scorre davanti al finestrino, sembra che tutto sia stato fatto a caso, ed in fondo è verosimile. Come è verosimile che lo stesso sia accaduto per Mafraq.
La polvere delle loro strade non è dissimile: i taxi e le macchine la sollevano allo stesso modo, i bambini vi corrono sopra con lo stesso entusiasmo. Eppure basta spostarsi di poco da questa città per respirare il sapore di una terra diversa, più amara. Una terra che molti turisti non vedranno mai, e che, nonostante tutto, appartiene comunque a quella stessa Giordania di cui porteranno a casa le foto.
Ci ho messo tanto, un giro enorme di parole, per arrivare a parlare di questa polvere, di questa terra.
Il suo nome è Zaatari, ed è un campo: un campo profughi. Ogni giorno vi arrivano circa 600 siriani tra uomini, donne, bambini e anziani.
Il campo è immenso, lo sguardo non riesce a coglierne la fine. Si dice che possa accogliere fino a 150.000 rifugiati, un numero enorme se consideri che dietro ad ogni cifra si nasconde un volto, una storia.
Ma la cosa impressionante è che non c’è nulla. Per l’appunto solo terra e polvere, per chilometri. E, ovvio, anche tende e persone. Dannazione, se ci penso mi vengono ancora i brividi.
Rivedo quel maledetto furgoncino della Caritas,
rivedo i nostri giubbottini blu con la scritta bianca in lettere latine,
rivedo i cartoni pieni di cibo e giochi per la distribuzione. Una distribuzione fatta alla cazzo, che più cazzo non si può.
Ma soprattutto rivedo quei bambini. Sono i figli della Siria, di una Nazione ferita, ma che mantiene la sua dignità. Sono bambini che non sorridono, e questo mi sconcerta, perché non so come muovermi, cosa fare, cosa dire. Mi limito a guardarmi attorno: a qualcuno chiedo timidamente il nome, qualcuno mi risponde, qualcun altro si ritira. Accarezzo qualche testa, ma smetto subito, perché mi sembra troppo un gesto di pietà, e loro non hanno bisogno di questo.
Vedo anche qualche genitore.
Vedo una madre con i suoi sei figli avvinghiati addosso: mi sorride. Purtroppo non abbiamo parole per parlarci, il nostro dialogo è muto, ma dice molto. Quanto invidio la forza di quella donna che, nonostante tutto, ha ancora il coraggio di sorridere!
Vedo un padre che tiene per mano i suoi due bambini, uno di loro in lacrime perché vuole un pallone. Il suo sguardo è duro e rassegnato assieme, è lo sguardo di un padre che non può far nulla per dare un pallone a suo figlio. E’ uno sguardo che congela, e che io non posso sostenere.
E poi ci sono gli adolescenti: arrabbiati e belli come tutti gli adolescenti del mondo. Gridano “Allahu akbar”. “Allah è grande”. “Dio è grande”. Ma quanto è grande Dio? Sarà più grande di questo campo profughi che si estende all’infinito? Più grande del dolore, della rassegnazione e della rabbia di questa gente?
Io non ne ho idea, non ne ho proprio idea.
So solo che io, invece, mi sento piccola, impotente, e a disagio in quel giubbotto blu troppo largo per me. Un disagio che non se ne va via nemmeno quando lasciamo il campo, che non viene spazzato nemmeno dal vento che alla fine ricopre di sabbia anche noi.
Ormai ho quello spazio terroso dentro agli occhi, e difficilmente lo dimenticherò.
Il punto è che il giorno dopo essere stati a Zaatari abbiamo lasciato Mafraq per girare la Giordania, anche noi da buoni turisti, da buoni occidentali. Abbiamo fatto le nostre foto galleggianti sul Mar Morto, abbiamo camminato per le vie di Petra e preso il sole sul Mar Rosso. E poi siamo stati nel deserto.
Sabbia, sole, sabbia, jeep, sabbia, stelle e ancora sabbia.
E lì è inevitabile. Lì ripensi per forza a quella sabbia, a quella polvere, alle molteplici polveri della Giordania: a quelle che ti sono entrate dentro, a quelle che ti hanno turbato, a quelle che ti hanno affascinato.
Per questo ora dico che la mia Giordania è terra.
In quell’elemento ci sta tutto.
Ci sta ciò che ho visto, ciò che ho respirato, ciò su cui ho camminato.
Ci sta tutto quello che ho vissuto.
E questo basta.