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lunedì 3 ottobre 2016

Sea gypsy: un altro mondo, un'altra cooperazione

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Lungo il cammino della propria vita, soprattutto quando si è in viaggio, s’incontrano un’infinità di persone. La maggior parte di esse sparirà senza lasciare alcuna traccia, ma raramente capita di incontrare qualcuno in grado di lasciarti un segno indelebile, un segno che appare senza nemmeno rendersene conto. Sono persone che ci offrono un’altra visione del mondo, che semplicemente con le loro azioni ci portano a mettere in discussione le nostre certezze presenti e a porci domande sul nostro futuro. 
Sono persone con una storia che merita di essere raccontata.

Lungo le strade dall'assolata Thailandia, io ho incontrato Maew.

Maew è una giovane donna thailandese. Originaria della remota provincia di Ranong, dal carattere forte e indipendente, racconta che era agli inizi di una sfavillante carriera tra i grattacieli di Bangkok, quando la notte di Natale del 2004, un devastante tsunami cambiò per sempre il suo Paese e la sua vita. Un maremoto che solo in Thailandia ha causato oltre 8.000 tra morti e dispersi, un grido di dolore che non poteva essere ignorato.
Così Maew ha lasciato la scintillante metropoli senza più farvi ritorno, per dirigersi nel sud del Paese ed iniziare un’esperienza di volontariato nel villaggio dei sea gypsy (letteralmente “zingari di mare”) di Thaptawan, lungo la costa delle Andamane, là dove la catastrofe aveva colpito più duramente.

Villaggio di Thaptawan
Il villaggio di Thaptawan è abitato da un gruppo sedentarizzato di Moken, tra i principali rappresentanti di un fenomeno, il nomadismo marino, ormai in via di estinzione. Difficili da quantificare per il carattere nomade della popolazione (si stima ne vivano circa 12.000 solo in Thailandia), questi gruppi minoritari di zingari di mare ancora non godono pienamente dei diritti fondamentali e ciò li rende più vulnerabili allo sfruttamento. E’ qui che dopo qualche mese dal suo arrivo Maew ha fondato il Tonkla Andaman Child Development Center (CDC) al quale ha dedicato 6 anni della sua vita, prima di sposarsi e trasferirsi in Olanda.

Reti da pesca tradizionali sulla spiaggia di Bangsak,
limitrofa al villaggio di Thaptawan
In Europa, i suoi pensieri non facevano che tornare ai bambini sea gypsy del villaggio di Thaptawan. Molti dei bambini che aveva aiutato, una volta adolescenti hanno lasciato la scuola senza raggiungere il diploma. Divise scolastiche, libri, trasporto e attività extra curriculari rendono gli studi per molti di essi troppo costosi. E anche con il diploma è difficile che la loro vita possa cambiare: non possono permettersi gli studi universitari e raramente riescono a trovare un buon lavoro. I sea gypsy hanno fama di essere pigri e sporchi tra i datori di lavoro thailandesi della zona e hanno difficoltà a relazionarsi con i turisti, non essendo abituati ad avere contatti con persone al di fuori del proprio villaggio. E’ così che il circolo vizioso dell’esclusione sociale si autoalimenta di generazione in generazione.  

Più il tempo passava, più Maew sentiva che la sua missione non era finita. Ha lavorato duramente per poter tornare a Thaptawan, dove ormai da due anni vive in pianta stabile con la sua famiglia e dove ha creato un programma di dopo scuola per i bambini sea gypsy, appoggiandosi alla struttura del Tubtawan Cultural Home, un centro culturale costruito nel cuore del villaggio grazie ai finanziamenti post-tsunami. “Anche se il programma dopo scuola si focalizza su attività ricreative e di tutorato, il nostro principale obiettivo è quello di costruire solide relazioni con i bambini, in modo tale che essi ci riconoscano come una fonte d’aiuto, quando hanno problemi scolastici o familiari, e delle figure cui chiedere consiglio, nel momento in cui devono prendere decisioni importanti per la propria vita” spiega Maew.

Tubtawan Cultural Home, il centro culturale di Thaptawan 
Maew rappresenta per questi ragazzi un rifugio sicuro quando scappano di casa perché hanno litigato con i propri genitori, i quali spesso hanno problemi legati alla disoccupazione, all'alcolismo e all’uso di sostanze stupefacenti, diventando uno sprone alla riconciliazione. 
Rappresenta un sostegno, anche economico, per coloro i quali decidono di riscriversi a scuola e ottenere il diploma. Un confronto per creare insieme un’immagine del proprio futuro, uno sforzo così distante dal mondo dei sea gypsy in cui si tende a vivere la vita giorno per giorno, senza pensare al domani. 
Rappresenta uno stimolo per chi decide di coltivare il valore del risparmio, totalmente estraneo alla loro cultura, attraverso l’apertura di un conto in banca. Per stimolarne l’uso, ogni volta che depositano del denaro sul proprio conto, Maew aggiunge qualche bath come incentivo.
Rappresenta un orientamento alla crescita personale, un aiuto ad assumersi man mano quelle responsabilità che a casa non sono abituati ad avere, per crescere e maturare con maggiore coscienza della propria vita.

Sui soffitti del centro culturale è dipinta la storia dei Moken di Thaptawan

Il suo è un approccio molto lungo e ben diverso sia dall’assistenzialismo, rappresentato dai famosi “sacchi di riso” nell’immaginario collettivo, sia dai grandi progetti scritti a tavolino e curati nel dettaglio dei big donor della cooperazione. Gli effetti di questo agire si sedimentano inevitabilmente in un tempo molto dilatato: “solo ora riesco a vedere i frutti dei semi piantati oltre dieci anni fa ed questo che mi fa andare avanti nonostante tutte le difficoltà” mi dice, con un luccichio negli occhi.
Piantiamo semi che un giorno cresceranno. Nutriamo semi già piantati da altri, sapendo che custodiscono in essi promesse future. Assicuriamo solide fondamenta a un futuro sviluppo, di cui forse non vedremo mai i risultati. Noi non possiamo fare tutto e c’è un senso di liberazione nel raggiungere questa consapevolezza. E’ nelle parole e nelle azioni di Maew che ritrovo l’importanza del distinguere tra lo stare e il fare, forse uno dei più grandi doni che si riportano a casa dopo un anno di esperienza sul campo.

Per poter finanziare il programma post scuola Maew lavora come insegnante di inglese, anche se il suo obiettivo è dedicarsi al suo progetto a tempo pieno. “L’avere più tempo libero non solo mi permetterebbe di aiutare meglio i bambini, ma mi darebbe anche la possibilità di aiutare le loro famiglie”, sottolinea Maew quando si accenna di futuro. Secondo lei, l’unico modo per spezzare il circolo vizioso dell’esclusione sociale è lavorare al fianco dei genitori, trasmettere loro l’importanza dell’insegnare ai propri figli il senso di responsabilità, mostrar loro che una vita diversa è possibile e “aprire le porte” del villaggio, favorendo sempre più contatti col mondo esterno.

Il programma post scuola prevede anche l'insegnamento della lingua inglese

Al momento nel programma dopo scuola i ragazzi sono formati attraverso una serie di attività manuali per realizzare souvenir tramite l’uso di materiali di scarto (plastica, vetro, carta, foglie, conchiglie), da poter vendere ai turisti dei resort limitrofi durante il periodo di alta stagione. Oltre alla sensibilizzazione sul valore del riciclo e allo sviluppo di una coscienza etica, l’obiettivo primario è quello di mostrare il ritorno nell'investire le proprie energie in un progetto più a lungo termine, ben diverso dal vivere alla giornata, che possa in futuro rendere sostenibili le attività del programma dopo scuola.

Le foglie dell'albero della gomma una volta essiccate e dipinte
vengono utilizzate come elemento decorativo

Se un giorno anche a voi capiterà di incamminarvi per l’assolata Thailandia, ricordate che lì, tra i lussuosi resort di Khaolak e la ridente cittadina di Takuapa, c’è un villaggio ancora fermo nel tempo, in cui potreste avere la fortuna di essere contagiati dalla prorompente energia positiva di Maew, una persona con il potere di far ricredere anche i più disillusi che un mondo migliore sia ancora possibile.

Martina Dominici, 
casco bianco Caritas Italiana in servizio in Thailandia

sabato 28 gennaio 2012

I Morgan, alias gli zingari del mare

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Le vicende dei Morgan son difficili da scrivere. Devi pesare parole quali “semplici”, “sviluppati”, “modernità”, “primitivi”. Forse un antropologo, non un antropaologo. Ci provo, come già spezzatamente accadde in 1: ONE*.

Nel mezzo del cammino, come nel mezzo di trasporto, esiste un elemento, un aspetto transitorio, il transito di terra, la pausa materiale, nel mezzo c'e' anche il dubbio di come diventare”, cantava Marco Castoldi nel 1997, quando non cercava le x. È splendida presunzione credere di avere conosciuto i Morgan. E presuntuoso non voglio apparire (neanche essere, ma questa è un’altra storia). Il nucleo sta nel mezzo, e noi nel mezzo non ci arriviamo. Arriviamo appena alla superficie: è un pomeriggio sereno, quello in cui stiamo in una barca, ingannando il tempo dell'attesa scattando foto.


I Morgan, o Moken. Un gruppo etnico di 2000, 3000 persone che vivono in comunità sparse per il Golfo delle Andamane, tra la Thailandia e il Myanmar. Si dice che siano nomadi, ma quelli con cui abbiam parlato noi non lo sono.

Di mestiere le donne raccolgono le conchiglie. E poi fanno figli. Da quando la natura gli concede di averne, che loro siano 11enni o 13enni. Quando chiediamo ai Morgan quante mogli abbia ognuno di loro, la domanda gli viene tradotta dall’inglese al thai, dal thai al loro dialetto ed iniziano a rispondere e a ridere e a replicare e i traduttori partecipano al gioco incalzandoli e scoppiano nuovamente a ridere tutti. Tranne noi. Dopo un minuto di questa scena, la persona che ci sta facendo da mediatore si gira verso di noi e, impassibile, risponde lapidario. “Una”. Mi sento in un fumetto di Guy Delisle**.

Di mestiere gli uomini pescano con le bombe. Ma, a differenza di Super Dynamyte Fishing***, ogni tanto qualcosa va storto; quelli con cui abbiamo parlato noi parevano i pirati del Mar dei Sargassi****, uno con l’occhio di vetro, uno senza un labbro, uno senza una mano e il quarto con una scritta thai (o birmana?) tatuata da capezzolo a capezzolo. Saltano su una barca come quella qua sotto e vi trascorrono una decina di giorni al largo. Per guadagnare la bellezza di 40€ a testa, con cui comprano da mangiare. E da bere. Il progetto promosso dalla Caritas locale li vorrebbe affiancare nel crescere l’abitudine al risparmio, ma il percorso è agli inizi e le loro smarrite reazioni quando gli chiediamo cosa ne pensano sono più efficaci di molti report.


Ho letto di un esperimento che confronta 2 scenari: nel 1° possiamo scegliere di avere 100 $ oggi o 110 domani; la > parte delle persone sceglie i 100 $ oggi. Nell'altro possiamo avere 100 $ tra un mese o 110 $ tra un mese e un giorno; la maggioranza sceglie di aspettare un giorno in + e avere 110 $ tra un mese e un giorno. Ecco, senza troppa cognizione di causa, mi son fatto l’idea che i Morgan non comprenderebbero il dilemma*****.

Mentre camminiamo tra le palafitte immerse nell’immondizia, da cui bimbetti nascosti ci sbirciano attenti, Father Suwat ci mostra una radura tra gli alberi: “Quello è il loro cimitero: appoggiano su quel terreno i corpi dei loro defunti”. Un gruppo di cani ci segue e il Padre parla un po’ a me e un po’ a se stesso quando conforta decenni di cooperazione allo sviluppo: “Perché la questione non è che loro sono poveri. La questione è che loro dipendono da famiglie thai che ne sfruttano il lavoro e l’ingenuità. Nessun Thai oggi vuole pescare con gli esplosivi, ed oltre a procurargli un molo e delle trappole per pesci, è nostra volontà renderli autonomi, commercialmente e non”.


I Morgan, ricitando il loro omonimo, erano fuori dal tempo, ed ora vi stanno entrando. Un ingresso del genere raramente riesce ad essere indolore, penso, mentre la suddetta barca ci riconsegna alla costa di Ranong.

* Odio riscrivere le stesse cose, un po’ di più di quanto odio autolinkarmi

** Guy Delisle, fumettista canadese, al seguito della moglie medico senza frontiere, ha vissuto in improbabili Paesi asiatici quali il Myanmar, la Corea e la Cina meridionale, raccontandomeli in pregiatissimi graphic novel

*** App ludica di Android da cui alcuni cervelli in fuga non son più tornati

**** 4 pirati sul Mar dei Sargassi, sopra una zattera fatta di assi, stanno remando, dicono loro, alla ricerca di un grande tesoro. Però uno è alto, uno è basso e uno è zoppo, e il quarto ha una benda sull’occhio. Zac

***** E, aggiungo, alcune riflessioni che mi trovo a fare sul denaro mi ricordano passaggi del manoscritti economico-filosofici di Marx&Engels del 1844, come quelli riportati inizialmente qua

domenica 28 febbraio 2010

1. ONE

3 commenti:
2010 02 11, Milano.

Mi giro e mi trovo di fronte una donna completamente blu. Non ho ancora visto Avatar, ma ora è lui che guarda me. Conseguenza del ritrovarmi in mezzo ad un raduno di cosplayer. Quando Ken il guerriero sfida la realtà dall’alto di un metro di passerella capisco che 2 parole sulla fine della missione dovrò scriverle. Due parole vorrei scriverle. Poi Julia lo raggiunge, i due si baciano, ed io mi dico che non è ancora ora. Ora. Mi giro intorno, sono l’unico “in borghese” e, in quanto tale, diverso.
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Lui è Douihg, un giovane Morgan: “Zingaro dei mari”. Un mese fa aveva tutte le dita, ma poi è successo che nella palafitta in cui vive con altri 2 ragazzi sono scomparsi dei soldi. Nessuno era stato. In questi casi la prova del fuoco rivelerà il colpevole. E così i tre cacciano la mano destra nelle braci: il 1° a levarla sarà il colpevole, lo sanno tutti. Ma nessuno ritira l’arto per un bel po’, fin quando non iniziano ad avvampare. Douigh perde l’anulare. I soldi saltano fuori, erano semplicemente sotto a dei panni, nessuno li aveva nascosti. Il fuoco non mente.


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Non è facile uscire dalle caselline. Quando una letterina è scritta in una casellina non ne esce più. Non è così semplice. Alcune persone non si rassegnano all’idea che io viva in Italia. Ogni volta che m’incrociano si sorprendono:
“Cosa ci fai tu a Milano?”
“Ci vivo”
“Beh, ma sei qua di passaggio, vero?”
“Siamo tutti qua di passaggio”
“Ma quando riparti?”
“Non saprei, non ho viaggi in programma”
“Non me lo vuoi dire?”
“No, è che davvero… ok, riparto ad aprile”
“Per dove?”
“Vado nel Combala”
“Ah, ecco, appunto, non ci sei mai!”
“Già”

Credo rassicuri sapere che io sia a spasso per il mondo: non so se x’ questo lo renda un posto migliore ai loro occhi, o forse x’ rende me una persona migliore, o forse ancora rende loro stesse persone migliori. Non credo si tratti soltanto di un economizzatore cognitivo: certo, è + facile non modificare il file nella loro testa “Paolo fuori dall’Italia”, ma non è solo quello. Percepisco in loro una sorta di delusione quando temono che io abbia deciso di fermarmi.

Ciò messo anni a capire che il logo della Feltrinelli rappresenta una F rovesciata. Era un logo che non avevo mai interpretato. Non mi era mai messo a cercare di capire da dove venisse. E dove andasse. Non mi era mai interessato farlo: la casellina in cui si trovava mi andava benissimo.
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Dov’erano finiti i Morgan ai tempi dello tsunami? Erano sulle colline: gli antenati li avevano tramandato che quando il mare si ritira poi ritorna. Più si ritira, più ritorna. Se si ritira un casino, poi è un casino. E mentre i turisti occidentali facevano foto ricordo sull’inaspettato bagnasciuga e i thailandesi raccoglievano pesci e ostriche scoperti dal rientro delle acque, loro salirono spaventati sulle colline. Per salvarsi.

Scelta identica la presero i Jarawa, sulle Andamane: loro sapevano che in questi casi bisognava seguire gli animali, e allora si misero dietro ai cani che fuggivano nell’entroterra. Per salvarsi.
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L’aereo che ci porta a casa sta sospeso per una notte lunghissima, viaggiamo colla luna, che cammina con noi. Avere la luna dalla propria parte è diverso da avere la luna e basta: è il sogno di un vampiro, non l’incubo di un lunatico. Quando atterro soffice sul manto innevato di Malpensa appena illuminato dall’alba, mi chiedo se mai Natale è passato. Sensazione che si prova quando non si chiude bene qualcosa, questa si sbrodola su parte della vita che segue. In fondo questo scritto svolge proprio la funzione del bavagliolo pulitore.
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Un bambino che nasce in ospedale, a Patong, e nel letto adiacente una mamma che muore. Dove sono finiti i Birmani? Quelli che ce la fanno emigrano massicciamente in Thailandia. Qua li attendono i destini più diversi. Questa donna ha 31 anni, è sposata da 4 mesi ad un suo connazionale venticinquenne; è il suo terzo marito e la donna ha un primogenito di 5 anni ed un secondogenito di 2 anni e mezzo. E poi ha l’aids. Sonima è l’operatrice Caritas che, tra le migliaia di altri compiti, va in ospedale a tradurle le domande dei medici, e ci racconta questa storia.  A mia volta traduco pezzetto dopo pezzetto ad Alberto, fino a quando non trovo più la voce, siamo alla fine della missione. Volto la testa ed Alberto ha inforcato gli occhiali da sole. Arrivano i due bambini, corrono dalla smunta mamma, che gli sorride: le parlocchiano un po’, ridendo. Non sanno che sta morendo, non sanno cos’è la morte, non sanno che il nuovo papà ha il visto in scadenza e a breve sarà rimpatriato; rimarranno da soli, a meno che Sonima non riesca in qualche miracolo burocratico, dice che ogni tanto gli viene, è un lavoro di diplomazia, reti, contatti. Come giocare a Shangai, salvare le bacchette senza smuoverne altre che potrebbero infastidirsi. Ed anche noi siamo diventati bastoncini di Shangai, la nostra missione rientra nel gioco della diplomazia. Lo sa fin troppo bene Mr. T, quando ci spiega come ha ricavato dalla nostra prima cena informazioni rispetto ai cibi che preferiamo, a quelli che ci fanno stare meno male ed agli ambienti serali di nostro maggiore gradimento. Mr. T, che persona.
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Portai i bagagli della Mangusta fino allo scompartimento giusto, poi andai a una bancarella a comprargli un dosa avvolto nella carta. Era il suo spuntino preferito, quando prendeva il treno. Ma prima di darglielo lo aprii e rimossi le patate buttandole in mezzo alle rotaie, perché le patate lo facevano scoreggiare, e la cosa lo metteva di cattivo umore. Un servo deve conoscere l’apparato digerente del suo padrone da cima a fondo, dalle labbra all’ano.
Aravind Adiga, La tigre bianca, Einaudi, 2008, Torino, pgg.101-102
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Come se il caporalato non fosse un fenomeno italiano. In Thailandia, largo del Mare delle Andamane, ci sono barconi con birmani clandestini a bordo, e i datori di lavoro li raggiungono e si scelgono i pezzi forti. Se uno (o una) rimane troppo sulla nave, non scelto, vien buttato in acqua. Ma è solo una delle storie che abbiam sentito. Ed in Italia ce ne sono altrettante.
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La teresina raccontava: “Mi chiedono perché io pensi solo ai lebbrosi, se gli altri non siano poveri. Beh, rispondo, io penso a questi, voi pensate a quelli!”.

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Max è un centrocampista dal piede educato e il passo saggio, se gli appoggi dietro la palla sai che questa tornerà su, ed è un bel sapere. Uscendo dal campo mi chiede com’è la Thailandia. Gli spiego che ci sono andato per lavoro, ma lo sapeva. Provo a formulare una risposta sensata, e accatasto lì qualcosa. Rincasando in concomitanza col concerto di Vasco, la missione asiatica non rientra nell’ordine del giorno, ma è giusto così: poche persone me ne hanno chiesto, oltre al taxista. È arrivata l’ora: se non la racconto a me, non riesco a raccontarla a nessuno.
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Frodo: Vorrei che non fosse accaduto nulla.
Gandalf: Vale per tutti quelli che vivono in tempi come questi, ma non spetta a loro decidere; possiamo soltanto decidere cosa fare con il tempo che ci viene concesso.
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Lungi dal sentirci inseguiti dai Nazgul, riprendiamo ugualmente a correre appena scesi dalla scaletta. Il tempo che ci viene concesso è liminale e butto giù qualche riga (c’è chi la tira su, per reggere il ritmo). La missione è finita, vedremo cosa farne. Per intanto saluto i compagni di viaggio.
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Ciao. Dimenticavo: le prime due foto sono di Alberto Minoia.
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1 orizzontale: La fine della missione.