Se non fosse che ci troviamo in un carcere giordano. E che lui, sudamericano, è dentro per droga e si trova a oltre 10mila chilometri di distanza dal suo Paese. Un solo viaggio, ma gli hanno trovato addosso parecchi chili di cocaina.
Gli mancano i vestiti, la maglietta che ha su gliel’ha data il sacerdote che lo visita da un po’ di tempo. Non ha abbastanza soldi per comprarsi le cose all’interno della prigione (la lametta da barba o le sigarette). Non parla una parola di arabo, e non riesce nemmeno a comunicare col medico del carcere per raccontargli dei suoi problemi di salute. L’unico che gli da’ una mano è un ragazzo peruviano di 19 anni, anch’egli dentro per droga, che gli fa da traduttore.
Ha lasciato sette figlie in Bolivia, l’ha fatto per loro. Tutte ragazze, mi dice orgoglioso, e che hanno bisogno di lui. Ora mi chiede di aiutarlo, di aiutarle, mi strattona la giacca e mi chiede di aiutarlo. Mi prende molta pena per lui. E’ qua solo da cinque mesi, e se davvero sarà condannato per droga non uscirà di prigione prima di 10-15 anni. Gli dico che ne parlerò con i miei colleghi, che cercheremo di aiutarlo. Che faremo il possibile. Ma cosa faremo esattamente? Non ne ho idea.
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Maggio. In questi mesi sono tornato più volte a trovare ***. E’ sempre lì. Gli abbiamo portato dei vestiti, delle carte telefoniche, dei soldi per comprarsi le sigarette. Abbiamo cercato di trovargli una tutela legale ma non ci siamo ancora riusciti. Quando mi vede si illumina, e mi rendo conto che per lui questi quindici minuti sono importanti. Passa due, tre, anche quattro settimane ad aspettare il mio ritorno. Saluti, sorrisi, conversazioni tra due (quasi) perfetti sconosciuti. 15 minuti.
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