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giovedì 11 settembre 2014

DJIBOUTI - ITALIA: la partita di pallone

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Il mio racconto parte dall'immagine che mi si prospetta affacciandomi alla finestra della mia stanza, nella nostra casa gibutina.
Non è il luogo cardine della nostra esperienza: non è il Centro Caritas con i suoi (e un pochino anche nostri) amati bimbi; non è il villaggio di Ripta con i suoi mille colori nel deserto, né la cittadina di Ali Sabieh con le sue indimenticabili Sisters.
         

                                   
In queste tre settimane molte volte mi fermo davanti a quella finestra.
Un primo momento è all'arrivo. Il primo pensiero, ammirando la vista, è sicuramente di stupore: una spiaggia lunghissima, un mare grigio-azzurro, assolutamente piatto.
Ma ciò che mi colpisce non sono né il colore del mare né l’ampiezza della spiaggia.
Seduti, sdraiati, in piedi, si notano centinaia di ragazzi, intenti a trascorrere il loro tempo tra chiacchiere, capriole, tuffi e partite di pallone.
E così, mentre i nostri giorni trascorrono tra giochi, danze e qualche piccola medicazione al Centro Caritas, io il pomeriggio mi ritaglio qualche minuto per ammirare quella “vista”.
Mi affascina “sbirciare” la vita quotidiana dei ragazzi, che giorno dopo giorno mi dà occasione per nuove riflessioni.
Loro non mi vedono, non mi notano minimamente e questo fa sì che quella finestra diventi per me una sorta di “macchina da presa”, che crea però un distacco dalla realtà, che in qualche modo mi tiene lontano da quei ragazzi.
Non passa molto tempo e finalmente, decidiamo di trascorrere anche noi un pomeriggio sulla spiaggia, organizzando una partita di calcio (abbastanza improvvisata) con i pochi ragazzi che siamo riusciti ad avvisare.
Porte fatte con le samaras (infradito), centrocampo immaginario e regole di gioco alla “Jean Vajean”!
Da una partita “7 contro 7”, in men che non si dica si arriva ad un “tutti contro tutti” (ottanta contro ottanta!).
Corse da una parte all’altra del campo, calci agli stinchi e palloni mancati.
Per loro io sono Silva (logicamente solo per la somiglianza nel nome!), in campo abbiamo Pirlo, Buffon e persino Ozil.
Ma che emozione! Finalmente abbiamo i piedi sporchi, neri. Neri, proprio come i loro!
E quelle partite si ripetono “tutti” i giorni (ormai la voce si è sparsa: i bianchi sono sulla spiaggia a giocare! Le partite cominciano già senza formazioni, impossibile dividere in squadre le decine di ragazzi).
Più passano i giorni, più ci avviciniamo al giorno del rientro in Italia e i momenti passati alla finestra evocano in me emozioni sempre più forti.
Non guardo più dall’esterno, da “dietro le quinte”: ci siamo messi in gioco, ci siamo sporcati mani e piedi!
E i ragazzi che prima guardavo da lontano, nascosta dietro la mia finestra, ora sono lì al mio fianco, ora corro con loro dietro quel pallone.
Qualcuno ha definito spiaggia di Djibouti “il più bel campo da calcio del mondo”. Lo confermo, ed io, fiera, posso dire di aver avuto l’onore di giocare su quel campo, con i nostri ragazzi e con i miei fantastici compagni di avventura.



Cosa di tutto questo sia un racconto dettagliato della realtà o una semplice metafora dei miei 21 giorni gibutini non è dato sapersi. Lo custodisco gelosamente nel mio cuore!

Silvia

domenica 7 settembre 2014

Djibouti: 50 gradi, PRENDERE o LASCIARE.

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“Mamma quest'estate ad agosto vado a collaborare nel Centro Caritas a Djibouti”.
“Te non ci pensi nemmeno! Volontariato lo fai in Italia, non c'è bisogno di andare laggiù.”

Mi chiamo Niccolò Chiesa, le dita di una mano contano gli esami che mi mancano per laurearmi in giurisprudenza e la mia estate ha avuto un incipit 'conflittuale'.
Io sono orgoglioso d'essermi misurato con questa conflittualità materna (la quale sembra ignorare che io sul suolo nazionale faccia volontariato sull’ambulanza). Se le avessi permesso di vincere, non avrei lasciato mezzo cuore in Boulevard de la Republique. Non mi troverei ora qui a scrivere.

Lo sapevo eccome che, pur essendo di origine marinara (il mio habitat è il Tirreno), avrei avuto dei problemi con la torrida realtà gibutina. Non sapevo però, che ne sarei rimasto stregato. Il mio corpo, la mia pelle, le mie canne nasali sentono la necessità di inalare aria bollente: quei tanto temuti 50 gradi.
E' sgomento. Il caldo non lascia tregua: investe come una testudo di legionari. Uniforme, compatto, senza pietà. 
Il pensiero è: "Chi me l’ha fatto fare?” 
Ci si mette un battito di ciglia a capire che non è stata una decisione avventata. Un battito di ciglia è anche il tempo che ci si mette dall’aeroporto fino a casa, se alla guida c'è un neozelandese. 
Casa per me è una sola: non quella dove sono cresciuto, a Milano (città che detesto), ma quella di Livorno. Così diverse Livorno e Djibouti, che di somigliante hanno solo il fatto d’essere due porti, eppure io a Djibouti mi sono sentito a casa.
Questo sentimento è da attribuire alla gentile ospitalità offertaci da Monsignor Bertin. Non ci si scorda il suo sorriso benevolo al nostro all’arrivo, e le divertenti caustiche battute.

Sorriso: la costante di tutto il nostro soggiorno. 
Il sorriso è un elemento che conserverò sempre, tatuato nella memoria. Semplice movimento muscolare, leggera contrazione della mimica facciale, breve ma intensa, sempre diversa ma “uguale”. Vibrazione energizzante, che affonda nello spirito transitando per i bulbi oculari.
Me la porterò dietro per sempre questa lieve contrazione, perché, in qualche modo, mi è stata offerta da tutti, ovunque

La notte invece seguito a sognare un altro genere di sorriso. Un sorriso disteso e pacato che in meno di un battito di ciglia si trasforma in un ghigno truce, che del precedente movimento pacifico delle labbra poco ha. Carnivora scarica elettrica, che indurisce in un secondo quelle che fino ad un secondo prima, parevano due labbra morbide come le due metà di un avocado appena sbucciato.
Questo è il labile confine tra le espressioni che solcano il viso di un bimbo di strada. Un sorriso lascia il posto ad un ghigno. Il ghigno scompare nuovamente per un sorriso.
La reversibilità esiste e va coltivata. Ho iniziato con lo scambiare più sorrisi possibili, linguacce che s'evolvono in ‘roventi’ abbracci (perché nel frattempo i 50 gradi seguitano ad essere immancabili compagni di soggiorno), finendo col sudare insieme. Ce saranno infiniti modi, queste sono stati i miei. Basta veramente poco: la forza che risiede in un battito di ciglia.

Non sono francofono, non parlo amarik e nemmeno somalo, ma ho imparato la lingua dei bambini di strada. Loro me l'hanno insegnata. Coi vestiti a brandelli, i piedi sporchi e callosi, il costato a fior di pelle, ma con due file di denti bianchi: sempre belle in vista. Sempre sorridendo. Ho imparato la lingua dei bimbi di strada e questo mi ha reso una persona migliore. O per lo meno, mi piace crederlo. A dirlo, saranno le mie azioni future e le parole degli altri. 

Sento la necessità di inalare quell'aria bollente, stringere tra le braccia quelle piccole 'tempeste' ossute, sentirmele alle calcagna mentre cerco di depistarle sulla spiaggia, con un cambio di direzione dopo l'altro, stringendo tra le mani la palla da rugby.
Sento il bisogno di urlare loro addosso, nel faticoso tentativo di fare rispettare la “linka” (fila) e di prendermi una sonora sfuriata da Marieke per essermi fatto spalmare il viso di tempera verde e blu da Asma, sprecando così i preziosi colori.
Non sento per nulla, invece, il bisogno di vedere la Gendarmerie ed avere la consapevolezza di ciò andrà a fare il camion blu, pieno di poliziotti animati e vivaci, nelle vie del centrocittà.

Djibouti non è una favola che, paternamente, Nonno mi raccontò una sera di dicembre davanti al camino. E questo purtroppo fa parte del pacchetto. Prendere o lasciare.
Io, comunque sia, ho deciso di prendere.
Quei sorrisi che seguito a sognare la notte sono per me sacri, ed io intendo rivederli al più presto. E’ mia intenzione cercare di far in modo che non cedano il posto ad un ghigno truce, o se proprio devono farlo, che lo facciano per il minor tempo possibile. 

Salama


Nicco