Il mio racconto parte dall'immagine che mi si prospetta affacciandomi alla finestra della mia stanza,
nella nostra casa gibutina.
Non è il luogo cardine della
nostra esperienza: non è il Centro Caritas con i suoi (e un pochino anche
nostri) amati bimbi; non è il villaggio di Ripta con i suoi mille colori nel
deserto, né la cittadina di Ali Sabieh con le sue indimenticabili Sisters.
In queste tre settimane molte
volte mi fermo davanti a quella finestra.
Un primo momento è all'arrivo. Il
primo pensiero, ammirando la vista, è sicuramente di stupore: una spiaggia
lunghissima, un mare grigio-azzurro, assolutamente piatto.
Ma ciò che mi colpisce non sono
né il colore del mare né l’ampiezza della spiaggia.
Seduti, sdraiati, in piedi, si
notano centinaia di ragazzi, intenti a trascorrere il loro tempo tra
chiacchiere, capriole, tuffi e partite di pallone.
E così, mentre i nostri giorni
trascorrono tra giochi, danze e qualche piccola medicazione al Centro Caritas,
io il pomeriggio mi ritaglio qualche minuto per ammirare quella “vista”.
Mi affascina “sbirciare” la vita
quotidiana dei ragazzi, che giorno dopo giorno mi dà occasione per nuove
riflessioni.
Loro non mi vedono, non mi notano
minimamente e questo fa sì che quella finestra diventi per me una sorta di “macchina
da presa”, che crea però un distacco dalla realtà, che in qualche modo mi tiene
lontano da quei ragazzi.
Non passa molto tempo e finalmente,
decidiamo di trascorrere anche noi un pomeriggio sulla spiaggia, organizzando
una partita di calcio (abbastanza improvvisata) con i pochi ragazzi che siamo
riusciti ad avvisare.
Porte fatte con le samaras (infradito), centrocampo
immaginario e regole di gioco alla “Jean
Vajean”!
Da una partita “7 contro 7”, in
men che non si dica si arriva ad un “tutti contro tutti” (ottanta contro
ottanta!).
Corse da una parte all’altra del
campo, calci agli stinchi e palloni mancati.
Per loro io sono Silva
(logicamente solo per la somiglianza nel nome!), in campo abbiamo Pirlo, Buffon
e persino Ozil.
Ma che emozione! Finalmente
abbiamo i piedi sporchi, neri. Neri, proprio come i loro!
E quelle partite si ripetono “tutti”
i giorni (ormai la voce si è sparsa: i bianchi sono sulla spiaggia a giocare!
Le partite cominciano già senza formazioni, impossibile dividere in squadre le
decine di ragazzi).
Più passano i giorni, più ci
avviciniamo al giorno del rientro in Italia e i momenti passati alla finestra
evocano in me emozioni sempre più forti.
Non guardo più dall’esterno, da “dietro
le quinte”: ci siamo messi in gioco, ci siamo sporcati mani e piedi!
E i ragazzi che prima guardavo da
lontano, nascosta dietro la mia finestra, ora sono lì al mio fianco, ora corro
con loro dietro quel pallone.
Qualcuno ha definito spiaggia di Djibouti “il più bel campo da calcio del mondo”. Lo confermo, ed io, fiera,
posso dire di aver avuto l’onore di giocare su quel campo, con i nostri ragazzi
e con i miei fantastici compagni di avventura.
Cosa di tutto questo sia un
racconto dettagliato della realtà o una semplice metafora dei miei 21 giorni
gibutini non è dato sapersi. Lo custodisco gelosamente nel mio cuore!
Silvia
Silvia
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