All'inizio
non capivo. Mi chiedevo “ma perché è così difficile raccontare
che cos'è stato Djibouti per me? Perché dentro ho duemila cose,
ma se prendo foglio e penna non esce nemmeno una parola?”. Ad un
certo punto è stato tutto chiaro: è così complicato perché
Djibouti è stata una di quelle esperienze vissute “a cervello
staccato”, che l’attendi per mesi, ma non ti stai a fare troppe
aspettative, hai semplicemente tanta curiosità e tanta voglia di
partire. E poi quel giorno arriva e in realtà ti prende anche un po’
alla sprovvista, che quasi non ti senti pronta, che di sicuro in
valigia non ci hai messo qualcosa, che pensi “cavoli, con tutto il
tempo che avevo potevo iniziare prima a preparare le cose”, però
non importa, l’importante è che finalmente si parte. E poi arrivi
lì, quasi catapultato, e ti ci immergi in quel mondo, ti lasci
invadere, ti fai scuotere un po’ e, senza nemmeno rendertene conto,
è già ora di tornare. E di pensare, in quel momento lì, non ne hai
proprio voglia, perché l’unico pensiero che invade insistentemente
la tua mente è la certezza che quelle tre settimane ti mancheranno
da morire e che te le porterai dietro sempre, in tutto. Djibouti è una
di quelle esperienze che semplicemente ti vivi fino in fondo, in cui
di razionale c’è ben poco, perché vieni interamente travolto
dalle emozioni. Ecco perché è tanto difficile: perché le emozioni
non le spieghi a parole, o meglio, non c’è modo di spiegarle, le
senti, le vivi e basta. E allora, pur consapevole che il risultato
sarà parziale, incompleto, impreciso, insoddisfacente, ho deciso di
scrivere perché sono curiosa di vedere che forma prendono le
sensazioni, perché vorrei provare a trasmettere almeno un po’
dell’entusiasmo che questa esperienza mi ha lasciato e dare un’idea
di ciò che è stato Djibouti per me.
Djibouti
per me è leggerezza. È la spensieratezza di balli che buttano giù
muri e di partite di pallone sulla spiaggia che fanno bene al cuore e
profumano di libertà. È il fregarsene dei piedi sporchi di terra e
delle magliette fradice di sudore. È la facilità con cui ci si
sente a proprio agio lì, che ti viene proprio naturale essere te
stesso in tutto. È l’instaurare un contatto con un’immediatezza
ed una semplicità ormai rare, che se mentre cammini per strada vedi
un bambino e lo saluti o gli sorridi o gli mostri qualche foto dalla
tua macchinetta, già un po’ la sua attenzione l’hai catturata. È
la serenità che ti trasmette chi, privo di qualsiasi certezza, è
costretto a non pensare al domani, ma sempre sorride.
Djibouti
per me è consapevolezza. È rendersi conto un po’ di più di cosa
voglia dire vivere per la strada e poter fare affidamento solo sulle
proprie forze, fin da bambini. È capire quanto conta avere
un’opportunità nella propria vita. È impattare con una realtà
dura, fatta di miseria, violenza, degrado, che prima di starci a
contatto non immagini in tutta la sua asprezza; una realtà difficile
da accettare, ma con la quale fai i conti e dalla quale impari a non
essere indifferente. Djibouti non è che ti cambia la vita, perché
poi torni e ti rituffi nella routine di sempre, però ti fa cambiare
la prospettiva da cui guardi, la lente attraverso cui filtri,
l’attenzione che poni a ciò che ti circonda.
Djibouti
per me è rispetto. È stima verso quei bambini, per i quali la maestra non è quella della scuola, che la maggior parte di loro nemmeno può frequentare; la loro maestra di
vita è l’esperienza, che ha insegnato loro ad affrontare ogni giorno
con forza e tenacia.
Djibouti
per me è gratitudine. È gratitudine verso Zac, ragazzo gentile,
dolce e disponibile, perché era lì con me, ad aiutarmi, mentre io
tentavo, invano, di far rispettare la fila a una ventina di bambini
urlanti, che impazzivano alla vista di un’altalena e praticamente
mi assalivano ad ogni “cambio turno”. È gratitudine verso Ahmed,
che il giorno della partenza mi guardava e a gesti provava a farmi
capire che noi Cantieristi quel pomeriggio ce ne saremmo andati, mentre
lui restava lì, senza una mamma, senza un papà, senza nessuno: io
non ho saputo cosa dire, sono rimasta come disarmata e l’unica cosa
che, col cuore, sono riuscita a fare è stato abbracciarlo, ricevendo
in cambio un sorriso sincero, come a dire “non importa, non
preoccuparti, questo mi basta”. È gratitudine verso ognuno di quei
bambini, perché non mi hanno fatto pesare quel senso di impotenza
che io invece ho provato nei loro confronti, perché mi hanno
accettata, anche se la mia permanenza lì era a termine, che poi io
la mia vita ce l’ho altrove e quindi non posso saperlo fino in
fondo cosa vuol dire vivere così ogni santo giorno. Loro sono stati
capaci di prendere quel poco che potevo offrire loro, senza pretese
e, anzi, contraccambiando con i loro sorrisi e i loro gesti attenti e
veri.
Djibouti
per me è dedizione. È l’azione silenziosa e tenace di chi crede
nel cambiamento e lo persegue con passione, impegno ed umiltà, di
chi un mondo più giusto, nel suo piccolo, prova a realizzarlo
concretamente. È la soddisfazione nelle voci delle suore di Ali
Sabieh mentre ti raccontano delle attività a scuola con i bambini
del villaggio e ti dimostrano che credere in ciò che si fa è il
motore più potente che ci sia. È il lavoro quotidiano di tante
piccole -ma preziose- gocce nell'oceano.
Djibouti
per me è gruppo. Sono i ragazzi con cui sono partita e che
ringrazio, perché penso sia stata davvero una gran fortuna
affrontare questa esperienza con loro. Da subito c’è stata
sintonia, nata con naturalezza e spontaneità estreme; per tre
settimane il gruppo è stato una sicurezza, una dimensione in cui
sentirsi supportati, ascoltati, accolti, a proprio agio. Un gruppo
che ricorderò per tutte le risate che mi ha fatto fare: la scodella,
Jean Vajean, una prugna che in realtà è un Picasso originale,
l’acqua del risciacquo del bucato, la camicia verde mela, la crema
al timo, i viaggi folli nel pick-up, il letto sfondato, il verso
della foca che poi è uguale a quello del gabbiano, “goorbye, I’m
fine”, le capre sugli alberi e i gatti che volano, gli
interminabili giri di saluti delle Sisters, il salviettone, la
“schiscètta”, le vegliarde che devono prendere l’aereo e
tornare a casa, lo sgomento, i gavettoni, Irene che è stata in
Gambia, Oristano, i campioni mondiali di autoscatto e altre ottomila
cose che per i più non significheranno assolutamente niente, ma che
ai miei compagni, leggendole, un sorriso probabilmente l’hanno
strappato.
Djibouti per me è contatto: con un Paese tanto distante eppure ormai così
parte di me, con quei bambini, con i miei compagni di avventura, con
me stessa. Sì, Djibouti per me è contatto. Ed è energia. È
l’energia che si scatena in un contatto.
Erika
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