mercoledì 17 settembre 2014

DJIBOUTI, L'ENERGIA CHE SI SCATENA IN UN CONTATTO.

All'inizio non capivo. Mi chiedevo “ma perché è così difficile raccontare che cos'è stato Djibouti per me? Perché dentro ho duemila cose, ma se prendo foglio e penna non esce nemmeno una parola?”. Ad un certo punto è stato tutto chiaro: è così complicato perché Djibouti è stata una di quelle esperienze vissute “a cervello staccato”, che l’attendi per mesi, ma non ti stai a fare troppe aspettative, hai semplicemente tanta curiosità e tanta voglia di partire. E poi quel giorno arriva e in realtà ti prende anche un po’ alla sprovvista, che quasi non ti senti pronta, che di sicuro in valigia non ci hai messo qualcosa, che pensi “cavoli, con tutto il tempo che avevo potevo iniziare prima a preparare le cose”, però non importa, l’importante è che finalmente si parte. E poi arrivi lì, quasi catapultato, e ti ci immergi in quel mondo, ti lasci invadere, ti fai scuotere un po’ e, senza nemmeno rendertene conto, è già ora di tornare. E di pensare, in quel momento lì, non ne hai proprio voglia, perché l’unico pensiero che invade insistentemente la tua mente è la certezza che quelle tre settimane ti mancheranno da morire e che te le porterai dietro sempre, in tutto. Djibouti è una di quelle esperienze che semplicemente ti vivi fino in fondo, in cui di razionale c’è ben poco, perché vieni interamente travolto dalle emozioni. Ecco perché è tanto difficile: perché le emozioni non le spieghi a parole, o meglio, non c’è modo di spiegarle, le senti, le vivi e basta. E allora, pur consapevole che il risultato sarà parziale, incompleto, impreciso, insoddisfacente, ho deciso di scrivere perché sono curiosa di vedere che forma prendono le sensazioni, perché vorrei provare a trasmettere almeno un po’ dell’entusiasmo che questa esperienza mi ha lasciato e dare un’idea di ciò che è stato Djibouti per me.

                                    

Djibouti per me è leggerezza. È la spensieratezza di balli che buttano giù muri e di partite di pallone sulla spiaggia che fanno bene al cuore e profumano di libertà. È il fregarsene dei piedi sporchi di terra e delle magliette fradice di sudore. È la facilità con cui ci si sente a proprio agio lì, che ti viene proprio naturale essere te stesso in tutto. È l’instaurare un contatto con un’immediatezza ed una semplicità ormai rare, che se mentre cammini per strada vedi un bambino e lo saluti o gli sorridi o gli mostri qualche foto dalla tua macchinetta, già un po’ la sua attenzione l’hai catturata. È la serenità che ti trasmette chi, privo di qualsiasi certezza, è costretto a non pensare al domani, ma sempre sorride.

Djibouti per me è consapevolezza. È rendersi conto un po’ di più di cosa voglia dire vivere per la strada e poter fare affidamento solo sulle proprie forze, fin da bambini. È capire quanto conta avere un’opportunità nella propria vita. È impattare con una realtà dura, fatta di miseria, violenza, degrado, che prima di starci a contatto non immagini in tutta la sua asprezza; una realtà difficile da accettare, ma con la quale fai i conti e dalla quale impari a non essere indifferente. Djibouti non è che ti cambia la vita, perché poi torni e ti rituffi nella routine di sempre, però ti fa cambiare la prospettiva da cui guardi, la lente attraverso cui filtri, l’attenzione che poni a ciò che ti circonda.

Djibouti per me è rispetto. È stima verso quei bambini, per i quali la maestra non è quella della scuola, che la maggior parte di loro nemmeno può frequentare; la loro maestra di vita è l’esperienza, che ha insegnato loro ad affrontare ogni giorno con forza e tenacia.

Djibouti per me è gratitudine. È gratitudine verso Zac, ragazzo gentile, dolce e disponibile, perché era lì con me, ad aiutarmi, mentre io tentavo, invano, di far rispettare la fila a una ventina di bambini urlanti, che impazzivano alla vista di un’altalena e praticamente mi assalivano ad ogni “cambio turno”. È gratitudine verso Ahmed, che il giorno della partenza mi guardava e a gesti provava a farmi capire che noi Cantieristi quel pomeriggio ce ne saremmo andati, mentre lui restava lì, senza una mamma, senza un papà, senza nessuno: io non ho saputo cosa dire, sono rimasta come disarmata e l’unica cosa che, col cuore, sono riuscita a fare è stato abbracciarlo, ricevendo in cambio un sorriso sincero, come a dire “non importa, non preoccuparti, questo mi basta”. È gratitudine verso ognuno di quei bambini, perché non mi hanno fatto pesare quel senso di impotenza che io invece ho provato nei loro confronti, perché mi hanno accettata, anche se la mia permanenza lì era a termine, che poi io la mia vita ce l’ho altrove e quindi non posso saperlo fino in fondo cosa vuol dire vivere così ogni santo giorno. Loro sono stati capaci di prendere quel poco che potevo offrire loro, senza pretese e, anzi, contraccambiando con i loro sorrisi e i loro gesti attenti e veri.

                                              

Djibouti per me è dedizione. È l’azione silenziosa e tenace di chi crede nel cambiamento e lo persegue con passione, impegno ed umiltà, di chi un mondo più giusto, nel suo piccolo, prova a realizzarlo concretamente. È la soddisfazione nelle voci delle suore di Ali Sabieh mentre ti raccontano delle attività a scuola con i bambini del villaggio e ti dimostrano che credere in ciò che si fa è il motore più potente che ci sia. È il lavoro quotidiano di tante piccole -ma preziose- gocce nell'oceano.

Djibouti per me è gruppo. Sono i ragazzi con cui sono partita e che ringrazio, perché penso sia stata davvero una gran fortuna affrontare questa esperienza con loro. Da subito c’è stata sintonia, nata con naturalezza e spontaneità estreme; per tre settimane il gruppo è stato una sicurezza, una dimensione in cui sentirsi supportati, ascoltati, accolti, a proprio agio. Un gruppo che ricorderò per tutte le risate che mi ha fatto fare: la scodella, Jean Vajean, una prugna che in realtà è un Picasso originale, l’acqua del risciacquo del bucato, la camicia verde mela, la crema al timo, i viaggi folli nel pick-up, il letto sfondato, il verso della foca che poi è uguale a quello del gabbiano, “goorbye, I’m fine”, le capre sugli alberi e i gatti che volano, gli interminabili giri di saluti delle Sisters, il salviettone, la “schiscètta”, le vegliarde che devono prendere l’aereo e tornare a casa, lo sgomento, i gavettoni, Irene che è stata in Gambia, Oristano, i campioni mondiali di autoscatto e altre ottomila cose che per i più non significheranno assolutamente niente, ma che ai miei compagni, leggendole, un sorriso probabilmente l’hanno strappato.

                                     

Djibouti per me è contatto: con un Paese tanto distante eppure ormai così parte di me, con quei bambini, con i miei compagni di avventura, con me stessa. Sì, Djibouti per me è contatto. Ed è energia. È l’energia che si scatena in un contatto.


Erika


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