Provare a raccontare un’esperienza
tanto grande e tanto forte non è un’impresa facile: come si fa a riassumere l’immensità
a parole?
Nonostante questo, voglio
provarci.
Con lo scopo (o, meglio, la
speranza) di contagiare chi mi circonda e di veicolare tutta la Bellezza che mi
è stata trasmessa da ogni singolo bimbo che ho avuto la fortuna di incontrare e
conoscere.
Djibouti, per me, è stata una di quelle
esperienze che prendono in mano la tua vita, te la sconvolgono un po’ e te la restituiscono
arricchita di centomila (anzi, direi OTTOcentomila) nuove sfumature.
Djibouti, per me, è la patria
di tanti piccoli eroi che, ogni giorno, silenziosamente, combattono la loro
battaglia, che è la battaglia per la vita, in un mondo in cui vivere e
sopravvivere troppo spesso coincidono.
Sono bambini di strada. Il più
delle volte completamente soli, senza genitori o parenti. Il più delle volte “stranieri”,
provenienti dall’Etiopia o dalla Somalia. Tutti senza documenti. Il che
significa che, ogni giorno, potrebbero essere picchiati dalla polizia, portati
in carcere o, peggio, riportati al confine.
Eppure sono bambini che,
nonostante abbiano una spalla gonfia a causa delle manganellate ricevute, non
smettono di mostrarti affetto.
Sono bambini che, sotto il sole
cocente, da soli, probabilmente senza cibo né acqua, camminano per non so
quanti km per tornare al centro Caritas di Djibouti, un luogo spesso non troppo
“abitabile”, ma che per loro è il paradiso.
E il punto è che ci tornano con una
vitalità ed un entusiasmo incredibili!!
Sono scriccioli di forza e coraggio,
che, ogni giorno, affrontano situazioni che non so quanti adulti saprebbero
affrontare. Il tutto con una dignità ed una semplicità disarmanti.
Sono bambini che vedono e
vivono di tutto, costretti a crescere troppo in fretta, in un mondo in cui
tutto sembra essere contro di loro.
Eppure sono bambini che, appena
accendi la musica (rigorosamente tamarra), ti prendono per mano (o per fianchi,
spalle, collo… perché di mani ne hai solo due e loro sono OTTanta), e
trasformano dolore e paura in sorrisi ed energia.
Sono bambini che hanno la garanzia
di un solo pasto al giorno.
Eppure sono bambini che
prendono in mano una manciata di spaghetti, te la spiattellano per bene e te la
offrono.
Sono bambini bisognosi di amore
e di attenzioni. Eppure sono bambini che ti danno tutto l’amore e tutte le
attenzioni di cui sono capaci. E, anzi, sono bambini che si scusano per non
aver niente da offrirti, se non un fogliettino di carta con scritto “I love you”
e il tuo nome.
Sono bambini che non hanno
niente. Eppure, senza neanche saperlo, ti danno tutto e con quel tutto ti
travolgono.
Djibouti, per me, equivale a
dire sudare, puzzare, essere conciati e sporchi a tal punto da sentirti dire da
un bambino di strada: “Sei sporca! Ti accompagno a lavarti al Centro Caritas!”.
Eppure è il posto in cui mi sono sentita più a mio agio. Il posto in cui mi
sono sentita più a casa.
Djibouti, per me, è (stato) un DEDALO
di emozioni, che spero continueranno a far brillare i miei occhi e ad animare il mio cuore.
<<Che cosa
vuol dire “addomesticare”?»
<<E’ una cosa da molto
dimenticata. Vuol dire “creare dei legami”…
Tu, fino ad ora, per me, non
sei che un ragazzino uguale a centomila ragazzini. E non ho bisogno di te. E
neppure tu hai bisogno di me. Io non sono per te che una volpe uguale a
centomila volpi. Ma se tu mi addomestichi, noi avremo bisogno l’uno dell’altro.
Tu sarai per me unico al mondo, e io sarò per te unica al mondo>>.
<<Comincio a capire. CI
SONO DEI BAMBINI… CREDO CHE MI ABBIANO ADDOMESTICATO…>>
Concludo ringraziando ogni mio singolo
compagno di viaggio (Daniele, NiCColò, Silvia, Erika, Monica, Ilaria, Alice) e
le due civiliste (Crana e Clodia), che mi hanno preso per mano e si sono
lasciati prendere per mano in questa esperienza a dir poco illuminante. GRAZIE.
Viola
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