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lunedì 29 agosto 2016

MOLDOVA: Il paradigma della doccia

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Sono tornata dalla Moldova da ormai due settimane e ho pensato a lungo se valesse la pena scrivere ancora qualcosa su questo blog. 
Tanti altri prima di me hanno parlato del Mal di Moldova, dell'importanza e della difficoltà di tornare, di tutte le domande che ci siamo posti e a cui è impossibile trovare risposta e della volontà di non lasciare che quest'esperienza diventi solo un'altra fotografia incorniciata. Tutte cose che condivido.
Stamattina ho però (ri)trovato un mio vecchio diario e la data mi ha fatto sorridere: novembre 2006, i miei quattordici anni. Mi sono seduta a leggere dei sogni, desideri e pensieri che avevo allora e sono rimasta piacevolmente scioccata nel vedere che molti non sono cambiati.
Cos'è cambiato allora?
A quei quattordici anni se ne sono aggiunti altri dieci di esperienze che, sebbene mi abbiano lasciato me stessa, mi hanno insegnato lezioni di vita, ma non so ancora del tutto come mi abbiano modificato.
Uno di questi momenti è la Moldova.

A chi me lo chiede provo a raccontare, ma la Moldova è fatta di paesaggi e cieli stellati, persone e momenti che sono difficili da descrivere a parole. Giuro che mi sforzo di raccontare con ordine quello che ho visto, ma mi rendo conto che il flusso di coscienza rimane lo stile più adatto. James Joyce sarebbe fiero di me!
Qualche giorno fa, allora, ho provato a fare un esperimento per vedere di spiegarmi meglio. Ho mostrato a F. queste due fotografie:


"Sono le docce e lo spogliatoio di Hîncești", le ho spiegato, "ma sono soprattutto il simbolo di quello che sono stati questi venti giorni."
Nel mio diario ho scritto più volte dell'esperienza traumatica che è stato entrarvici la sera alle nove, stremata, per lavare via il sudore, la stanchezza e la fatica della giornata passata tra bambini, internat e riunioni infinite per programmare il giorno seguente.
Ne ho descritto l'odore di uovo marcio e il freddo che entrava nelle ossa se al mattino non c'era stato abbastanza sole; eppure non ho dimenticato di annotare le canzoni stonate cantate con Irene nella cabina di fianco: metodi casalinghi per ignorare la puzza, il freddo e chissà quali bisci([1]) striscianti intorno a noi. Ho riportato anche i discorsi a cuore aperto con Silvietta e le risate con Anna e Martinî, gli sfoghi di e con Giulia e tutti quegli altri momenti che ho vissuto tra quelle assi di legno.

Il tempo, si sa, aiuta a dimenticare il lato negativo di tutto e già ripenso con nostalgica tenerezza all'acqua viscida della Moldova. 
Quello che allora penso di aver imparato nei miei quasi quattordici anni più dieci di esperienza è che si può imparare col tempo a diventare persone che vogliono trovare ovunque almeno un dettaglio positivo.
O almeno, ho capito che voglio provare ad esserlo.
Riguardando la foto, quindi, si può vedere la doccia infernale di Hîncești per quella che è fisicamente: quattro assi di legno con un po' di paglia, da cui sgorga un'acqua puzzolente e fredda.
Oppure si può vederla per quello che rappresenta: un lusso, qualcosa di più del catino che ci era stato preventivato. Soprattutto, un capolavoro di ingegneria del parinte([2]) Eugeniu.
Cercherò di dimenticare la betoniera antiestetica piazzata in mezzo al cortile dietro la chiesa, il freddo e gli insetti; vorrò ricordare piuttosto il gesto del prete che, per ringraziarci e accoglierci al meglio, ha preso due canne dell'acqua, qualche asse di legno, della paglia, una vecchia coperta, dei soffioni e un bidone dell'acqua blu, li ha assemblati con ingegno e ha creato per noi una doccia in cui lavarci a sera sulle note di una canzone. 
Questa:


Silvia (la sciura Brambilla [3])


 [1] animaletti generici
 [2] prete ortodosso
 [3] come verrò ricordata dai moldavi grazie al nome sulla tazza

sabato 13 agosto 2016

Moldova: CE-I CU TINE? –La storia delle aliene italiane: dramma in (troppi) pochi atti.

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Il momento centrale della giornata ad Hîncești con i bambini è la scenetta.

Ogni giorno, per dieci minuti, i bambini seguono le avventure di Robin Hood e del suo amico Pappagallo che cercano di tornare a casa loro (con la barchetta di Sconfinati, ovvio!) come dei moderni Ulisse. Oggi, quasi per caso, ci siamo trovate ad interpretare degli alieni. Quasi, perché siamo state noi a pensare a questa scenetta insieme ad alcuni dei volontari moldavi. Volevamo avere un ruolo anche noi in questo piccolo momento completamente in lingua aliena.
Siamo a tre ore di volo da casa, ad un’ora di fuso e ogni giorno iniziamo a capire qualche parola di più, ma è comunque stancante non riuscire a parlare con i bambini e con gli altri volontari così come siamo sempre stati abituati. Qua la lingua che ci troviamo a parlare è uno strano linguaggio, misto di italiano, rumeno, francese, spagnolo, inglese, sorrisi e parole inventate perché la i gutturale non siamo capaci di pronunciarla (tranne Martina, che ne va fiera!).

E come Chişinău, anche qui è un mare di contraddizioni e di situazioni aliene.

Robin Hood (Igor) e il Pappagallo (Valeria)
Vediamo ogni giorno circa sessanta bambini attenti e vogliosi di giocare e cantare con noi, ma sono bambini con le ciabattine rotte e le manine sporche. Non sono i bambini neri degli spot sociali, ma questo non vuol dire che valgano meno. Anzi, sono così simili a noi da lasciarmi quasi senza fiato: la bambina con gli occhioni grandi e i capelli castani potrebbe essere mia cugina. E ci assomiglia anche. Non ho le parole per spiegare il mare di sentimenti ambivalenti che mi riempiono il cuore e la pancia quando mi soffermo ad osservare questi paperottoli che giocano tra di loro; non penso sia un male perché, anche se amo scrivere, a volte è bene che certe cose non vengano elaborate subito. Mi piace che sedimentino un attimo e che mi lascino un punto interrogativo in testa. Sono però convinta che una mattina, tra un mesetto o due, mi alzerò e ripenserò ad Ana Maria o a Marius o a uno qualunque degli altri bambini che ho incontrato e saprò esattamente raccontare cosa ho provato. Per ora posso solo mettere giù a parole qualche impressione.
Quello che forse colpisce di più di questo Paese, o forse è meglio dire di questa città e di questi microbi che vediamo ogni giorno, non è la povertà, ma la solitudine. Tra i bambini –i nostri bambini- abbiamo chi tutti i pomeriggi viene a bussare alla finestra della scuola dove siamo ospitate perché è un’attività più divertente del vagare a caso e chi, a poco più di quattro anni, è già stato abbandonato dai genitori e vive in orfanotrofio, o Internat, come si chiama qui. E ci sono tanti altri bambini con tante altre storie che non conosciamo e a cui non possiamo fare domande. Ma forse non è un male, perché così non possiamo fare altro che trattarli come bambini.

Gli alieni e i protagonisti nel backstage
Sono bambini speciali che hanno un mondo da scoprire e uno dentro di loro. Ci siamo affezionate in brevissimo tempo e per questo motivo abbiamo voluto prendere parte noi di persona alla scenetta e in essa dare spazio alle nostre difficoltà; abbiamo cercato di fare in modo che anche loro potessero intuire che, pur non riuscendo a comunicare con loro, l’amicizia va al di là di tutto, anche del portale spaziotemporale che porta Robin Hood a conoscere gli alieni.
È una storia semplice e la metafora forse lo è ancora di più, ma questa scena è la nostra vita quotidiana. Nella scenetta, Robin Hood parla con l’unico alieno che può parlare la sua lingua, Francesco, e decidono di aiutarsi a vicenda: Robin riparerà il razzo con l’aiuto dei bambini e gli alieni gli daranno la barca per tornare a casa. Succede così anche tutti i pomeriggi durante le riunioni che facciamo nella mensa della scuola. All’inizio non ci capiamo con i moldavi, andiamo a tentoni, facciamo una serie improponibile di segnali per capirci e alla fine Anna, Tania (la responsabile di Diaconia che parla italiano come io non parlerò mai il rumeno) e Francesco ci confermano se abbiamo capito o no. È stancante, a volte frustrante, ma cerco di ricordarmi che in tutte le relazioni ci vuole pazienza perché l’amore è fatto di gioia, ma anche di noia, canta Finardi.
L’incontro tra Robin Hood e gli alieni è stato quindi il nostro modo un po’ contorto per ringraziare i moldavi, volontari e bambini, perché tutti loro ci aiutano a dare un senso a questo cantiere –o tabara, come si chiama qui- e ce lo rendono più colorato.

-Ce-i cu voi? -Io ho paura!
Ci saranno ancora momenti di difficoltà, costumi da preparare fino a notte, incomprensioni e docce fredde, tanto più che sabato saluteremo la maggior parte dei moldavi, ne incontreremo di nuovi e ci sposteremo ad Ucrainca, dove avremo nuovi bambini, nuove storie da (non) scoprire e nuova stanchezza da accumulare. Sono convinta, però, che quando sarò nel mio comodo letto meneghino e riavrò la mia amata doccia, tutto questo mi mancherà e vorrò cercare di nuovo il portale spaziotemporale che Giulia ha costruito con alluminio, hula hop e la precisione che solo un’ingegnere possiede.

Il portale spaziotemporale! A onor del vero, hanno partecipato alla sua realizzazione: Chiara, Silvia E. e Valeriu

















Silvia (la Sciura  Brambilla)


P.S. Questo post è stato scritto giovedì 4 a Hîncești ed è stato pubblicato oggi a Ucrainca, a dimostrazione del fatto che passiamo così tanto tempo tra noi a fare e a fare gruppo, che pubblicare un post diventa una questione di giorni! ;)   


P.P.S. Il post è stato pubblicato a Chişinău per problemi tecnici.