Pubblico qui sul blog un articolo uscito oggi sul quotidiano Daily Nation, interessante per comprendere alcuni sviluppi, aspettative e preoccupazioni, a seguito dell’accordo di condivisione del potere siglato circa dieci giorni fa da Kibaki e Odinga.
NOI APPARTENIAMO A UN UNICO GRUPPO ETNICO CHE SI CHIAMA KENYA
Dal momento che ai kenyani è stata tolta la possibilità di festeggiare l’arrivo del nuovo anno, hanno scelto di celebrarlo il 29 febbraio, il giorno dopo l’accordo di una coalizione di governo tra Kibaki e Raila, che andrà a cambiare il modo in cui il nostro paese è governato.
Dopo due mesi di tensione, caratterizzati da uccisioni e caos nel paese, era palpabile un diverso umore nel Kenya: colleghi di lavoro e vicini di casa appartenenti a differenti gruppi etnici o differenti partiti politici che si erano ignorati per settimane, hanno ripreso a rivolgersi la parola.
“Happy new year” – un augurio che si poteva sentire ovunque, nei bar, nelle strade, anche sui matatu.
Comunque, a differenza delle esultanze che seguirono la vittoria schiacciante del governo NARC nel 2002, in questo caso le celebrazioni sono state ben diverse. Un atteggiamento comprensibile visto l’alto livello di sofferenza che il paese ha vissuto a partire dal 30 dicembre.
Centinaia di kenyani sono ancora in lutto per la perdita dei loro cari uccisi negli scontri e centinaia di migliaia vivono ancora nei campi profughi, dopo aver perso non solo la propria casa ma anche ogni fonte di sussistenza.
Coloro che non sono stati fisicamente colpiti hanno vissuto un altro tipo di trauma. La maggior parte dei kenyani infatti ha percepito gli effetti dell’animosità etnica e dell’odio manifestatosi in forme più o meno gravi.
La perdita peggiore durante la crisi è stato il concetto di appartenenza a un’unica nazione, a un unico gruppo etnico chiamato Kenya. Questa perdita è incommensurabile e ci tormenterà per gli anni a venire.
Ma potrebbe essere non troppo tardi per capovolgere la situazione. Il vero test per i nostri leader sarà proprio come saranno in grado di creare un’identità nazionale in un paese ora molto diviso.
Sfortunatamente dobbiamo ancora vedere segni di questo. I politici stanno parlando di come dividere le cariche tra i diversi gruppi e di come creare nuove cariche per accontentare le 42 comunità etniche.
Io sono dalla parte della diversità e della rappresentanza proporzionale nei posti di lavoro pubblici. Ciò che critico è il mito, perpetuato dai politici kenyani, in base al quale una posizione nel governo automaticamente porta a vantaggi o prosperità per il gruppo di appartenenza di quel politico. Chiedi a un Luo che passeggia per Nyanza se avere un ministero del governo guidato da un politico del suo gruppo lo ha aiutato ad avere più cibo, e la risposta, ci posso scommettere, sarà: No! Allo stesso modo, avere un presidente kikuyu è servito a poco per migliorare le condizioni di vita delle centinaia di kikuyu che abitano a Mathare o Kibera.
È però vero che gli enormi poteri nelle mani del precedente presidente hanno dato a loro (i kikuyu) illimitato accesso alle risorse pubbliche, usate spesso per avvantaggiare la propria comunità, o più spesso determinate cricche, invece che intere regioni. Così facendo hanno creato l’illusione, o meglio, il grande imbroglio, di far credere a milioni di kenyani che avere un membro del proprio gruppo etnico al potere avrebbe miracolosamente trasformato le loro vite. Per mantenere questa illusione, era necessario che i politici continuassero a mantenere divisi i kenyani.
[…] La de-etnicizzazione della politica deve essere il primo compito della nuova coalizione.
Un altro è cambiare il modo con cui la gente vede il fattore etnico in Kenya. A causa del trascorso coloniale, la maggior parte dei kenyani ha una relazione di amore-odio con la propria identità etnica.
Da una parte coloro che aspirano alla modernità o che mirano a salire nella scala sociale si dissociano dalla loro identità etnica, scoraggiando i bambini dall’imparare la propria lingua materna e spendendo anni cercando di rimuovere tracce del loro accento etnico mentre parlano in inglese.
Dall’altra parte questi sono gli stessi che fanno della propria appartenenza etnica uno dei fattori principali nel cercare un impiego o che chiudono gli occhi quando un membro del proprio gruppo etnico viene preso con le mani nel sacco.
Di per sé l’identità etnica è una buona cosa, è un patrimonio culturale e dovrebbe essere causa di orgoglio per ognuno. Ma quando è usata per sopprimere o escludere persone, diventa oppressione. Se noi, come nazione, possiamo riconciliare le nostre diverse identità etniche con la nostra aspirazione ad essere una nazione, allora avremo davvero una ragione per festeggiare un nuovo anno.
(di Rasna Warah)
Saluti a tutti,
Ema
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