lunedì 28 luglio 2014

Bolivia: Io non dimentico, Je n'oublie pas, Yo no olvido...




Io non dimentico, Je n’oublie pas,  Yo no olvido…

O per lo meno alcune cose…

Viviamo in una società e in un tempo storico dove siamo bravissimi a non dimenticarci dei morti, ogni giorno ci ricordiamo di un morto differente, o alcune volte di due morti alla volta (San Pietro e Paolo, Santa Gesualda, Santa Barbara e così via discorrendo). Ma la domanda che mi sorge è: siamo capaci di ricordarci dei vivi?

Credo che siamo abbastanza bravi a dimenticarci dei vivi, degli amici, dei parenti, di chi lavora per noi, per la nostra sicurezza... E ce ne dimentichiamo finché queste persone non iniziano a soffrire, a stare male o finché non muore qualcuno (e allora rientriamo nel discorso che ci ricordiamo benissimo dei morti). Viviamo in una società che si ricorda dei morti ma che ha una paura dannata della morte, siamo incapaci di accettarla come una cosa naturale della vita e per questo ne scappiamo. Nella nostra fuga siamo tanto frenetici che ci dimentichiamo di celebrare la vita come si deve, cerchiamo di stringere tutto, così come con la sabbia, più stringiamo più le cose belle della vita ci scappano dalle mani e noi ci avviciniamo inevitabilmente al momento tanto temuto senza aver assaporato niente e senza aver lasciato la nostra impronta sulla terra, e così ce ne andiamo come nella nostra più profonda paura, come cenere al vento… ma adesso sto divagando, sto lasciando il mio pensiero libero e mi sto allontanando dall’obbiettivo del mio post.

Ci ricordiamo dei grandi personaggi del passato, Giulio Cesare, Napoleone, poeti, eroi, artisti che guarda caso sono tutti morti e sono diventati famosi o eroi dopo la morte…sarà che bisogna morire per essere ricordati?

Il fatto è che i giorni nostri sono pieni di silenziosi “eroi”, persone normali, che lottano per qualcosa e lo fanno in silenzio nella solitudine di tutti i giorni. Fate attenzione a questa parola: solitudine. Ebbene si, ci sono persone che nonostante ricoprano cariche in cui sono sempre in mezzo alla gente, sono incredibilmente sole. In particolare mi sto riferendo a chi lavora nel sociale (includo i preti in questa categoria)e a chi lavora in ambito umanitario.

Lavorare in un paese straniero, culturalmente differente, non è facile, a maggior ragione non è facile se il tempo per il quale bisogna fermarsi nel paese non è determinato, non si vede un orizzonte al proprio soggiorno e si cerca di costruirsi una vita, una propria normalità. Aggiungiamo che già lavorare in situazioni critiche (emergenze sociali, catastrofi naturali, guerre, primo soccorso) sul proprio suolo nazionale non è facile, a maggior ragione non lo è lavorando fuori dal proprio territorio. Lavorare all’estero, in queste situazioni, non comporta solo le oramai scontate difficoltà linguistiche, ma comporta anche una “solitudine”, dovuta a differenze culturali, schemi mentali differenti. A volte si vivono esperienze fortissime, delle quali non si può parlare con nessuno, o perché non capirebbe o perché non gli compete sapere quello che è successo. Per porre rimedio a questa solitudine entrerebbero in gioco tutta la cerchia di relazioni che ci si è costruiti prima di partire, che sarebbero estranee al contesto, con le quali si potrebbe parlare liberamente di quello che succede. Il fatto è che la gente (amici, familiari, conoscenti, datori di lavoro), ha delle aspettative altissime nei confronti di queste persone. Pensa che sia una specie di super uomo, che non necessiti di niente. A volte queste sensazioni sono dovute da alcuni comportamenti dell’operatore. Come per esempio: l’operatore alla generica domanda: “beh! Che racconti di bello? Che hai fatto?” risponde in maniera vaga. La risposta vaga non è dovuta a non voglia di raccontare, è dovuta a difficoltà nel raccontare, al bisogno di tempo per raccontare, oppure ci sono delle cose che non si riescono a raccontare perché sarebbero comprensibili solo a chi le ha vissute. Altro comportamento è quello di non farsi sentire. Questo succede per problemi oggettivi il più delle volte, fusi orari differenti, orari di lavoro differenti, perché si è consci che la vita a “casa” va avanti anche senza di noi, oppure anche perché il ricordo causa nostalgia, e quindi per vivere meglio la realtà in cui si è inseriti si cerca di tagliare un po’ i ponti.

La riflessione mi viene dopo gli incontri che ho fatto qui in Bolivia, di persone molte in gamba, molto semplici, ma che per le loro competenze li vengono affidati incarichi di responsabilità per i quali non sono mai fisicamente soli. Ma la solitudine non si misura solo con la quantità di persone che ti circondano, si misura anche con il numero di persone che sono in grado di entrare in relazione con te. In particolar modo mi sono dato conto che in Bolivia il mondo relazionale e affettivo è molto differente dal mondo relazionale e affettivo al quale siamo abituati, ciò fa si che sia difficile che ci sia qualcuno in grado di capirti veramente, con il quale potersi confidare liberamente, che sia in grado di capire le tue difficoltà e quello in cui lotti. Qui viene a mancare quella cerchia di relazioni fuori dal lavoro delle quali stavo parlando prima. Inoltre a stimolare la mia riflessione è che qui in Bolivia si è pieni di “giornate”, El dia del Niño, El dia del Peatón, El dia de la Mamà (che vabbè abbiamo anche noi), El dia de la Amistad, e visto il grado di ingiustizie, il basso grado di coesione sociale che affliggono questo paese, sembra che abbiano bisogno di una giornata specifica per ricordarsi dei bambini, per ricordarsi degli amici e delle persone che care.

Per favore non arriviamo anche noi a questi livelli.

La verità è che per quanto uno sia forte, una buona parte della sua forza viene dalle persone che gli stanno attorno e tutti abbiamo dei momenti di sconforto o di debolezza in cui abbiamo bisogno di sentire vicino le persone care.

Viviamo in un mondo dove sentirsi è facilissimo, basta un click per restare connessi. Siamo pieni di “amici” sui social network, siamo sempre connessi, ma quando ci prendiamo del tempo per parlare veramente? Per ascoltare e non solo sentire con le orecchie come sta l’altra persona?

Non dimentichiamoci delle persone importanti, anche se sono lontane, prendiamoci un attimo per scrivere, per raccontarci e a volte per vederci, nel silenzio a volte ci sono molti più significati che in mille parole.

Per ricordarci dei vivi non aspettiamo che il Papa o la ONG o l’ONU di turno indicano la Giornata Mondiale di Qualcosa. La gente vive tutti i giorni non solo una giornata.
 

P.S. Per quanto mi piacerebbe, i disegni non sono miei, ma mi sono avvalso delle capacità grafiche di Banksy.
 
 

1 commento:

  1. Oh santa pace l'essere poliglotta non fa per nulla bene al tuo italiano!
    Ma, strafalcioni linguistici a parte (ti manderemo a fare qualche ripasso di grammatica quando torni a casa, tranquillo!) resto sempre piacevolmente sorpresa dal tuo spirito di osservazione e di ascolto...
    Non fraintendermi, so bene che l'orso Davidone è sempre stato molto saggio e dagli alti livelli colturali (la "o" non è un errore ma un doppio senso da nerd in biologia e che conosce la tua avversione all'acqua e al sapone! Un applauso quanto ne capirai il sensoXD) e che sei sempre stato un buon osservatore e che ti piace riflettere sul mondo (momento ruffianaggine acuta "mode on").
    Però leggere i tuoi pensieri e non solo sentirtene parlare fa sempre un certo effetto. Un bell'effetto.

    "Chi sa ascoltare la verità non è da meno di colui che la sa esprimere."Kahlil Gibran

    Keep going just like that!;)
    love u

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