Io non dimentico, Je
n’oublie pas, Yo no olvido…
O per lo meno alcune cose…
Viviamo in una società e in un tempo storico dove siamo
bravissimi a non dimenticarci dei morti, ogni giorno ci ricordiamo di un morto
differente, o alcune volte di due morti alla volta (San Pietro e Paolo, Santa
Gesualda, Santa Barbara e così via discorrendo). Ma la domanda che mi sorge è:
siamo capaci di ricordarci dei vivi?
Credo che siamo abbastanza bravi a dimenticarci dei vivi,
degli amici, dei parenti, di chi lavora per noi, per la nostra sicurezza... E
ce ne dimentichiamo finché queste persone non iniziano a soffrire, a stare male
o finché non muore qualcuno (e allora rientriamo nel discorso che ci ricordiamo
benissimo dei morti). Viviamo in una società che si ricorda dei morti ma che ha
una paura dannata della morte, siamo incapaci di accettarla come una cosa
naturale della vita e per questo ne scappiamo. Nella nostra fuga siamo tanto
frenetici che ci dimentichiamo di celebrare la vita come si deve, cerchiamo di
stringere tutto, così come con la sabbia, più stringiamo più le cose belle
della vita ci scappano dalle mani e noi ci avviciniamo inevitabilmente al
momento tanto temuto senza aver assaporato niente e senza aver lasciato la
nostra impronta sulla terra, e così ce ne andiamo come nella nostra più
profonda paura, come cenere al vento… ma adesso sto divagando, sto lasciando il
mio pensiero libero e mi sto allontanando dall’obbiettivo del mio post.
Ci ricordiamo dei grandi personaggi del passato, Giulio
Cesare, Napoleone, poeti, eroi, artisti che guarda caso sono tutti morti e sono
diventati famosi o eroi dopo la morte…sarà che bisogna morire per essere
ricordati?
Il fatto è che i giorni nostri sono pieni di silenziosi
“eroi”, persone normali, che lottano per qualcosa e lo fanno in silenzio nella
solitudine di tutti i giorni. Fate attenzione a questa parola: solitudine.
Ebbene si, ci sono persone che nonostante ricoprano cariche in cui sono sempre
in mezzo alla gente, sono incredibilmente sole. In particolare mi sto riferendo
a chi lavora nel sociale (includo i preti in questa categoria)e a chi lavora in
ambito umanitario.
Lavorare in un paese straniero, culturalmente differente,
non è facile, a maggior ragione non è facile se il tempo per il quale bisogna
fermarsi nel paese non è determinato, non si vede un orizzonte al proprio
soggiorno e si cerca di costruirsi una vita, una propria normalità. Aggiungiamo
che già lavorare in situazioni critiche (emergenze sociali, catastrofi
naturali, guerre, primo soccorso) sul proprio suolo nazionale non è facile, a
maggior ragione non lo è lavorando fuori dal proprio territorio. Lavorare
all’estero, in queste situazioni, non comporta solo le oramai scontate
difficoltà linguistiche, ma comporta anche una “solitudine”, dovuta a differenze
culturali, schemi mentali differenti. A volte si vivono esperienze fortissime,
delle quali non si può parlare con nessuno, o perché non capirebbe o perché non
gli compete sapere quello che è successo. Per porre rimedio a questa solitudine
entrerebbero in gioco tutta la cerchia di relazioni che ci si è costruiti prima
di partire, che sarebbero estranee al contesto, con le quali si potrebbe
parlare liberamente di quello che succede. Il fatto è che la gente (amici,
familiari, conoscenti, datori di lavoro), ha delle aspettative altissime nei
confronti di queste persone. Pensa che sia una specie di super uomo, che non
necessiti di niente. A volte queste sensazioni sono dovute da alcuni
comportamenti dell’operatore. Come per esempio: l’operatore alla generica
domanda: “beh! Che racconti di bello? Che hai fatto?” risponde in maniera vaga.
La risposta vaga non è dovuta a non voglia di raccontare, è dovuta a difficoltà
nel raccontare, al bisogno di tempo per raccontare, oppure ci sono delle cose
che non si riescono a raccontare perché sarebbero comprensibili solo a chi le
ha vissute. Altro comportamento è quello di non farsi sentire. Questo succede
per problemi oggettivi il più delle volte, fusi orari differenti, orari di
lavoro differenti, perché si è consci che la vita a “casa” va avanti anche
senza di noi, oppure anche perché il ricordo causa nostalgia, e quindi per
vivere meglio la realtà in cui si è inseriti si cerca di tagliare un po’ i
ponti.
La riflessione mi viene dopo gli incontri che ho fatto qui
in Bolivia, di persone molte in gamba, molto semplici, ma che per le loro
competenze li vengono affidati incarichi di responsabilità per i quali non sono
mai fisicamente soli. Ma la solitudine non si misura solo con la quantità di
persone che ti circondano, si misura anche con il numero di persone che sono in
grado di entrare in relazione con
te. In particolar modo mi sono dato conto che in Bolivia il mondo relazionale e
affettivo è molto differente dal mondo relazionale e affettivo al quale siamo
abituati, ciò fa si che sia difficile che ci sia qualcuno in grado di capirti
veramente, con il quale potersi confidare liberamente, che sia in grado di
capire le tue difficoltà e quello in cui lotti. Qui viene a mancare quella
cerchia di relazioni fuori dal lavoro delle quali stavo parlando prima. Inoltre
a stimolare la mia riflessione è che qui in Bolivia si è pieni di “giornate”,
El dia del Niño, El dia del Peatón, El dia de la Mamà (che vabbè abbiamo anche
noi), El dia de la Amistad, e visto il grado di ingiustizie, il basso grado di
coesione sociale che affliggono questo paese, sembra che abbiano bisogno di una
giornata specifica per ricordarsi dei bambini, per ricordarsi degli amici e
delle persone che care.
Per favore non arriviamo anche noi a questi livelli.
La verità è che per quanto uno sia forte, una buona parte
della sua forza viene dalle persone che gli stanno attorno e tutti abbiamo dei
momenti di sconforto o di debolezza in cui abbiamo bisogno di sentire vicino le
persone care.
Viviamo in un mondo dove sentirsi è facilissimo, basta un
click per restare connessi. Siamo pieni di “amici” sui social network, siamo
sempre connessi, ma quando ci prendiamo del tempo per parlare veramente? Per ascoltare
e non solo sentire con le orecchie come sta l’altra persona?
Non dimentichiamoci delle persone importanti, anche se sono
lontane, prendiamoci un attimo per scrivere, per raccontarci e a volte per
vederci, nel silenzio a volte ci sono molti più significati che in mille
parole.
Per ricordarci dei vivi non aspettiamo che il Papa o la ONG
o l’ONU di turno indicano la Giornata Mondiale di Qualcosa. La gente vive tutti
i giorni non solo una giornata.
P.S. Per quanto mi piacerebbe, i disegni non sono miei, ma mi sono avvalso delle capacità grafiche di Banksy.
Oh santa pace l'essere poliglotta non fa per nulla bene al tuo italiano!
RispondiEliminaMa, strafalcioni linguistici a parte (ti manderemo a fare qualche ripasso di grammatica quando torni a casa, tranquillo!) resto sempre piacevolmente sorpresa dal tuo spirito di osservazione e di ascolto...
Non fraintendermi, so bene che l'orso Davidone è sempre stato molto saggio e dagli alti livelli colturali (la "o" non è un errore ma un doppio senso da nerd in biologia e che conosce la tua avversione all'acqua e al sapone! Un applauso quanto ne capirai il sensoXD) e che sei sempre stato un buon osservatore e che ti piace riflettere sul mondo (momento ruffianaggine acuta "mode on").
Però leggere i tuoi pensieri e non solo sentirtene parlare fa sempre un certo effetto. Un bell'effetto.
"Chi sa ascoltare la verità non è da meno di colui che la sa esprimere."Kahlil Gibran
Keep going just like that!;)
love u