martedì 30 gennaio 2018

IN NICARAGUA IL MACHISMO UCCIDE

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  Il sipario dell'anno 2017 ha difficoltà a chiudersi, è pesante ed è rosso più che mai. Ci sono delle donne sul palco, gridano. L'ultima voce che lancia un grido disperato è quella di Paola Bravo, ha il corpo sanguinante, un corpo accoltellato, un corpo che ci interpella e ci chiede giustizia.


Manifestante al corteo contro la violenza sulle donne, 25 Novembre 2017, Managua

     Paola Bravo, 32 anni, è l'ultima delle 63 donne ammazzate in Nicaragua nel 2017. Il numero delle donne uccise è in aumento rispetto all'anno precedente e il 2018 si è aperto aggiungendo un nuovo nome alla lista: Marcela Ramos Dávila, una cinquantenne uccisa a colpi di machete da un gruppo di uomini entrati in casa sua a Jinotega.


            Una marcia pacifica, ma gonfia di rabbia e d'indignazione


    Mentre la lista aumenta in maniera drastica, il governo non sembra avere idee molto chiare su come affrontare il problema dei femminicidi in Nicaragua, anzi pare voler ostacolare quei pochi focolai di resistenza che ardono in varie zone del paese. Il 25 Novembre del 2017, infatti, migliaia di donne e uomini sono sces* per le strade di Managua per chiedere giustizia per le decine di donne ammazzate durante l'anno. Una marcia pacifica, ma gonfia di rabbia e d'indignazione. Migliaia di voci all'unisono hanno gridato ¡Alerta: nos están matando! e preteso giustizia per Vilma Trujillo, bruciata sul rogo, così come per ogni altra donna violentata, per ogni donna fischiata per strada, per ogni donna assassinata, per ogni bambina che si è dovuta scontrare con la perversione adulta.

     Ogni corpo presente alla manifestazione ingombrava lo spazio sulla carretera Masaya, probabilmente troppo. Tutti quei corpi vigorosi venuti a denunciare, tutte quelle grida confuse eppure così chiare, infine, hanno disturbato qualcuno. A metà del percorso il corteo è stato bloccato da altri corpi, muniti di casco, mitra, tenuta antisommossa e indisposti al dialogo. Hanno bloccato con forza il fiume infuocato dei manifestanti impedendo a questi ultimi di terminare il percorso prestabilito.

Giovani attiviste al corteo internazionale contro la violenza sulle donne, 25 Novembre 2017, Managua



"Il governo è responsabile della violenza che subiscono le donne "


    Secondo Juanita Jiménez, la direttrice del Movimiento Autónomo de Mujeres, il governo non solo chiude entrambi gli occhi davanti ai crimini sulle donne, ma è anche responsabile di questa violenza. Secondo l'attivista, il governo minimizza la gravità della violenza e le denunce delle donne non vengono prese sul serio dalla Policía Nacional. Infatti, all'inizio del 2017, le prime quattro vittime di femminicidio avevano sporto denuncia di violenza alla polizia, ma sono state ignorate. Secondo la rivista argentina Latfem, questi atroci casi di femminicidio riflettono la misoginia in cui è immerso il paese, inoltre, l'impunità invia un messaggio di tolleranza agli aggressori e normalizza questi atti nel resto della società.

    In Nicaragua, così come in ogni altro paese dove il machismo s'impone e sopravvive adattandosi alla struttura, la vita delle donne è frustrante e lo diventa ancora di più quando non si è ascoltate. E allora a volte si preferisce tacere. Come dice Angela Davis nell'appello allo Sciopero Internazionale dell'8 Marzo, il silenzio sulle violenze non esiste semplicemente perché abbiamo paura o vergogna di parlare, il silenzio s'impone. Lo impone il sistema di giustizia penale che nega la possibilità di denuncia alle donne, attivando ulteriori livelli d'intimidazione e di violenza, lo impone il machismo di stato, lo impone un sistema economico e sociale che esclude le donne dal lavoro. 


                          La violenza machista ci riguarda tutti


    Angela Davis, Nancy Fraser, Linda Alcoff, Cinzia Arruzza, Tithi Bhattacharya, Rosa Clemente, Zillah Eisenstein, Liza Featherstone, Barbara Smith e Keeanga-Yamahtta Taylor hanno pubblicato sul The Guardian, un Appello allo Sciopero Internazionale dell'8 Marzo 2018. Un appello contro la violenza machista, contro il silenzio forzato, contro il capitalismo che promuove disuguaglianza, razzismo e misoginia.

   Ci prepariamo dunque ad una giornata in cui gridare NO con la voce di Vilma, di Paola, di Marcela e di tutte le donne rimaste dietro il sipario rosso, ma le cui voci ancora ci tormentano. Queste donne protagoniste di un orrendo scenario chiedono aiuto al pubblico, gli chiedono di non voltare le spalle, di non restare indifferenti. La violenza machista ci riguarda tutti. Non restiamo indifferenti.



"This is a women’s march and this women’s march represents the promise of feminism as against the pernicious powers of state violence. An inclusive and intersectional feminism that calls upon all of us to join the resistance to racism, to Islamophobia, to antisemitism, to misogyny, to capitalist exploitation". 

Angela Davis, Women's March Speech




"Antipatriarca", Ana Tijoux 

domenica 28 gennaio 2018

BEIT BEIRUT O LE FERITE DI UNA GUERRA

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Nel cuore di Beirut, precisamente nel quartiere di Dowtown, sorge una decadente costruzione oggi nota come Beit Beirut, “la casa di Beirut”. Nessuno chiama più quell'edificio col suo vero nome, Palazzo Barakat, anche perché è ormai passato quasi un secolo da quando Nicholas Barakat, nel 1924, commissionò il progetto di questa dimora gentilizia. 

Palazzo Barakat era costituito da otto appartamenti abitati da alcune famiglie della classe media. L’edificio si affacciava sull'angolo formato da due delle arterie principali del traffico di Beirut: Independence Street e la Beirut-Damasco. Probabilmente negli anni Trenta la capitale libanese non era ancora coperta dal pesante velo di smog che si respira oggi e Palazzo Barakat non era esposto alle grida dei clacson come lo è ora. 


Palazzo Barakat doveva sicuramente catturare lo sguardo dei passanti. La pietra dal fragile colore giallo formava sottili colonne che ricordavano vagamente l’architettura greca. Sempre un ibrido, Beirut. Una città posta nel bel mezzo del Mediterraneo e che trae la propria identità dalle contaminazioni, dagli incroci e dagli stili commisti. E con le sue ariose facciate, Palazzo Barakat doveva sicuramente incarnare lo spirito beirutino: la ricchezza mostrata sempre con distratta eleganza. 

Poi accadde. Il 13 aprile 1975 il mondo finì e nessuno sembrava aspettarselo. Eppure la gente doveva sapere. Le guerre non scoppiano mai da un giorno all’altro. Serve ben più di una scintilla, più dei colpi di mitra che lacerarono l’aria di Ain El Rummaneh, quel giorno di primavera. 

Una guerra per procura, naturalmente. C’era Israele che stava cacciando il popolo palestinese dalla sua terra, la Siria con le sue mire espansionistiche e i precari equilibri confessionali in Parlamento. Le guerre scoppiano fra i potenti, ma sono i piccoli che le scontano. In Libano tutti cominciarono a sentirsi minacciati da tutti e nel ’75 iniziò il conflitto. 



Palazzo Barakat divenne suo malgrado un simbolo di guerra. La sua posizione, proprio in corrispondenza della Linea Verde, lo rese la postazione ideale per i cecchini. La sua architettura permetteva ai combattenti di nascondersi fra le sue colonne, di annidarsi nei suoi spazi interni. E da Sodeco altri guerriglieri rispondevano col fuoco, ferendo la facciata di Palazzo Barakat. 

Passarono gli anni e la guerra finì. Ma Beirut era stata ormai profanata. I lutti e le perdite portarono le varie comunità religiose ad autosegregarsi. Così Beirut Est divenne la roccaforte dei cristiani, mentre a Beirut Ovest trovarono rifugio i musulmani. Achrafieh e Hamra divennero i nuovi centri di una città ormai bicefala e Palazzo Barakat perse la sua centralità. 



Ecco cos’è Palazzo Barakat oggi. Una casa fantasma dalle cicatrici indelebili. Durante la ristrutturazione gli architetti hanno rinforzato il suo fragile scheletro con delle protesi di metallo. Ormai disabitato, Palazzo Barakat ha perso la sua alterigia nobile ed è diventato Beit Beirut, un museo della memoria. E con quella strana commistione di pietra e ferro, Palazzo Barakat è diventato ancora una volta lo specchio di Beirut, una città ibrida che si vuole moderna, ma che non riesce mai a sbarazzarsi del suo passato.



sabato 27 gennaio 2018

Ritorno a Cochabamba, dove la vita è imprevedibile!

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Ritornare per non smettere mai di imparare


Ritorniamo a Cochabamba, dopo un mese di rimmersione in Italia. Eravamo arrivate qui, a Cocha - come si dice in slang -, all’inizio di novembre e dopo quasi due mesi siamo tornate in Italia, tra vacanze e formazione. Uno shock

Non è semplice riuscire a entrare e stare in un paese come questo, una realtà molto diversa, per quanto segnata da un’influenza europea lunga  secoli.

 La Bolivia è uno dei Paesi del Sud America che più a conservato la sua storia e le sue tradizioni: il Quechua, l’Aymara sono alcune delle lingue che scorrono parallelamente al Castellano -guai a parlare di Spagnolo!-  e che si mescolano, pulsano, creando una tavolozza colorata nella quale ancora si sentono le radici di questa nazione.

Riunione parrocchiale del campo

Arrivata qui senza sapere una parola della lingua locale, ho scoperto la fortuna di stare tra persone che sono abituate a parlare lentamente, per farsi comprendere: non tutti i boliviani parlano infatti Castellano, come non tutti parlano Quechua o Aymara. Però ci si capisce: si fa attenzione ad esprimersi in maniera chiara, con un ritmo lento e a bassa voce.


Uno dei primi avvertimenti che ci è stato dato è stato infatti di non gridare mai - e per gridare si intende anche il tono di una normale conversazione italiana! -. Ricorda l'atteggiamento dei colonialisti, ci spiegano. Un altro motivo per cui quasi si sussurra, scandendo bene le parole.


L'idea però che oggi questo sia importante soprattutto per comprendersi a vicenda mi conquista di più: mi fa pensare all'unità di un popolo che supera le divisioni linguistiche e che, alla fine, sorride nella stessa lingua.



Murale del gruppo Acciòn Poética de Cochabamba

Ma, al di là della lingua -dell’idioma, pardon!-, intendersi non è facile. Un gesto, un’espressione, la costruzione di una frase, tutto ha un peso nel creare relazioni. Ed è difficile capire come fare.


Dopo due mesi stavamo cominciando a percepire il ritmo con cui segnare il tempo di un saluto, di un buon giorno, del lavoro … e adesso si ricomincia, di nuovo a 2.560 metri di altezza e con 5 ore di fuso orario!



Uno degli aspetti che abbiamo subito dovuto metterci in testa in Bolivia è stato:

SCORDATI DI PROGRAMMARE!

O, detto in altri termini:

LA VITA E’ IMPREVEDIBILE. ACCETTALO!


E per me, abituata a progettare, calcolare soppesare i pro e i contro di ogni cosa, è stato un vero colpo! Ma una volta che ci si abbandona a questo flusso un po’ matto della vita in Bolivia, si trovano anche i suoi lati positivi.


Dovevamo tornare mercoledì 24 gennaio, tutto a posto, tutto pronto. Biglietti presi, visto fatto.


Il 22 ci scrive la nostra responsabile in loco: martedì ci sarà un paro general (un blocco generale della circolazione). Potreste avere dei problemi con i voli, non riuscire a tornare a casa ... e state attente.
Già, perché quando il clima si scalda non dobbiamo dimenticarci di essere gringos, ragazze bianche provenienti da un paese ricco.

All’inizio ci preoccupiamo, ma poi ci diciamo "Andiamo, e vediamo cosa succede. In qualche modo faremo". Arriviamo e lo sciopero era stato sospeso. Torniamo a casa sane e salve.


Eh sì: inutile preoccuparsi troppo. Anche da un giorno all'altro qui tutto può cambiare!!!




Chiara

venerdì 26 gennaio 2018

NUOVI ORIZZONTI MUSICALI

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Chi avrebbe mai pensato che un giorno mi sarei ritrovata a canticchiare una canzone in bengali? Fare il servizio civile a Beirut significa anche passare delle ore a creare playlist incredibili, con brani che spaziano dalla musica tradizionale bengalese alle più attuali ed energiche canzoni etiopi. 
Forse vi chiederete cosa c'entra Beirut con questa cantante. È presto detto. 
Quando delle giovani donne lasciano il loro paese, in questo caso il Bangladesh, per tentare di costruire un futuro migliore per sé e per i propri figli, accade che alcune (troppe) trovino nel loro cammino solo sfruttamento e violenza. Accade che la loro dignità venga calpestata e che il loro diritto ad essere trattate come persone venga meno. 

Abbiamo incontrato alcune di queste donne nei centri della Caritas per donne migranti, vittime di sfruttamento lavorativo, dove stiamo svolgendo il nostro servizio civile. Qui, nonostante le barriere linguistiche, riusciamo ad avvicinarci al loro mondo attraverso la musica. La musica ha la capacità di risvegliare ricordi assopiti, di riportarle per qualche minuto alla spensieratezza che forse hanno avuto o hanno sognato da bambine. E se regalare qualche ora di felicità e serenità significa ampliare i propri orizzonti musicali, allora noi siamo qui anche per questo. 

E così mi sembra doveroso condividere questa inaspettata sorpresa: Runa Laila.
Nata il 17 novembre 1952, è una delle più famose cantanti bengalesi, la cui fama è diffusa in tutto il Sud-est asiatico. Quando Rani la sente, non c'è più niente che la fermi. Ed ora la canticchio anche io, come se avesse sempre fatto parte del mio bagaglio musicale. 

mercoledì 24 gennaio 2018

KARIBUNI MOMBASA...di nuovo!

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SCE KENYA 2017- RIENTRO DI GENNAIO

Eccoci qua...finalmente dopo tre aerei (troppi), siamo ritornate alla nostra casa in Kenya...Mombasa!


È strano per la prima volta ritornare in un posto lontano dove ho fatto servizio...le altre volte anche se lo avrei tanto voluto è stato impossibile, ma diciamo che è andata bene così! 
Però, questa volta, ritornare mi ha suscitato emozioni che non avevo mai provato...la bellezza e lo stupore di atterrare in un areoporto a 6.200 km di distanza dall'Italia e sapere perfettamente dove andare, trovare all'uscita un volto amico e salutarlo, chiamandolo per nome davanti allo stupore di tutti...essere accolta con un sorriso e una stretta di mano che dicono "bentornata"; salire in macchina e dirigermi verso la città conoscendo perfettamente la strada che stiamo percorrendo e riconoscere i luoghi che incontriamo...
Che bello e che grande fortuna poter avere il privilegio di vivere e provare tutto questo!


Guardando la città dal finestrino dell'auto vedo un mondo conosciuto ma improvvisamente mi scopro sorpresa che possa esistere davvero...per un attimo per la mia mente sembra quasi impossibile che questa realtà, questo mondo altro che scoppia di vita esista nello stesso tempo in cui esiste il mio piccolo mondo in Italia...
Sembra così lontano e diverso dall'ordine, dalle regole, dalla routine europea che davvero mi chiedo come queste due realtà possano coesistere...eppure è così! Mentre in Italia la gente si starà sedendo ad un tavolo imbandito per la cena, qui persone si aggirano per le strade alla ricerca di chissà cosa, dormono per terra placando le fatiche della giornata, i banchetti di legno dei mercati sono chiusi e stranamente tetri senza la calca che li circonda di giorno, la discarica come al solito brilla dei piccoli focolari che bruciano l'immondizia e mandano un odore pungente ed inconfondibile...

Poi, piano piano, ci addentriamo sempre più nella città, superiamo il ponte di Nyali passando sopra l'oceano, svoltiamo per Kongowea e proseguiamo verso Nyali...la strada è ora libera...sfrecciamo su Links Road, guardando la fila ordinata di hotel lungo la spiaggia..."The voyager"; "Bahari beach",..."Mombasa beach"...ed eccoci arrivate!!!
Scendiamo qui...le guardie ci aprono il portone sorridenti e...siamo a casa!!!
KARIBUNI MOMBASA, di nuovo...e tranquilla Chiara...esiste davvero...e per altri 9 mesi è tutta da vivere!

Chiara Galla

lunedì 1 gennaio 2018

Due mesi di Moldova: un turbinio di pensieri e immagini

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E’ difficile trascrivere il vissuto di questi quasi due mesi in Moldova perché le sensazioni e le immagini che mi passano per la testa si sovrappongono in continuazione.
Dalle mamme del centro maternale alle prime armi con i loro bimbi che stanno imparando a conoscere, agli adolescenti che condividono le loro domande e i loro dubbi, alle contraddizioni quotidiane visibili ad occhio nudo, all’accoglienza che abbiamo trovato, ai parchi nel bel mezzo della città, al nostro cercare di farci capire in un rumeno terribile e alle risate che ne conseguono, ad un senza tetto che in un italiano maccheronico ci chiede come stiamo, alle chiese dai tetti dorati che spuntano tra i block sovietici, al verde infinito che si mescola con il marrone scuro della terra appena fuori dalla città, al festeggiare ogni occasione, alle casette colorate dei villaggi, alle decine di anziani che ogni giorno, con grande dignità, si mettono in fila per aspettare un pasto caldo...
Ma nel turbinio dei miei pensieri voglio fermarmi proprio tra questi anziani.
Tanti hanno lavorato una vita, c’è anche chi ha fatto la “badante” per anni in italia, per percepire una pensione di 60 euro al mese... Tra questi anziani vorrei riuscire a fare un “fermo immagine” sul viso di una signora che fin dal primo giorno mi ha colpita. 
Non so come si chiami ma so che dall’inizio, da quando io e la mia compagna di avventura ci siamo messe di fianco a questa lunga coda per scambiare “quattro chiacchiere”  nell’attesa del pasto da distribuire, mi é rimasta impressa. 
Con pochi di loro riusciamo ad avere una conversazione che vada al di là del saluto, un po’ per il nostro rumeno zoppicante, un po’ per l’impegno e la velocità che richiede la distribuzione del pasto, un po' perchè gran parte di loro sono russofoni. Ma lei, questa dolce signora, con un sorriso incredibile e con il viso avvolto da un foulard a fiori che fa intravedere la sua chioma bianca, è riuscita a farci capire di essere sordomuta, di avere a casa un marito allettato e di avere due figli. Non lo so proprio come abbiamo fatto a capirci ma ci siamo riuscite.

Da quel giorno la vedo e, tagliando un pezzo di pane o distribuendo il recipiente pieno di zuppa, riusciamo sempre a salutarci e quel suo sorriso pieno o la sua mano sventolante che saluta con energia, forse sarà poco, ma per me ha un valore davvero profondo.

A lei e alle tante storie incrociate in questi primi mesi...
"Amo la semplicità che si accompagna con l’umiltà.
Mi piace la gente che sa ascoltare il vento sulla propria pelle,
sentire gli odori delle cose,
catturarne l’anima.
Quelli che hanno la carne a contatto con la carne del mondo.
Perché lì c’è verità, lì c’è dolcezza, lì c’è sensibilità, lì c’è ancora amore."    (A.Merini)