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domenica 7 settembre 2014
Djibouti, dalla fine. Impressioni, squarci e spiragli.
Djibouti non è un discorso semplice. Non fila liscio. Non è l'arringa di un avvocato, logica, chiara e concisa. Non è il testo di un politico famoso, pieno di promesse e pathos. Non è una poesia né una bella canzone. Non è un saggio sui massimi sistemi e non è la barzelletta del comico del momento. Non è un discorso semplice perchè, semplicemente, forse discorso non è.
Djibouti è balbuzia.
Un paese che rimbalza la vita con siccità, polvere, deserto e calore, è balbuzia.
Terzo anno per me a Djibouti. Tre anni di parole sconnesse, faticose, dure come le sue pietre e difficili da digerire. Tre anni di sillabe soffocate, amate ripetute pensate maledette bestemmiate. Tre anni in cui sillaba pù sillaba non crea parola e parola più parola non produce frase. Il filo che cuce i legami di questa grammatica non è presente, oppure è rimasto nella tasca del mio sarto immaginario.
Tre anni di balbuzia. E di paradossi.
A volte penso di essermi stancato. Stancato delle immagini che ho in testa in questo momento e delle parole che escono e che compaiono sullo schermo. Mi dà fastidio ricordare e pensare a quel ragazzino, soprannominato Pritt, perchè sento nel naso il suo alito al solvente e i suoi occhi lucidi e fatti. Detesto lo sguardo di quella donna con il bimbo in grembo che mi fissa. Detesto i suoi occhi, perchè conosco perfettamente la loro forma e la loro pena. Odio il poliziotto con il bastone, alzato a minacciare la mazzata al bimbo che lo sfida. Odio il bimbo che lo sfida, perchè domani il suo bastone sarà un sasso, da scagliare ad un altro bimbo. Provo rabbia nell'immaginare Asma in marcia per chilometri e chilometri dopo l'arresto e la deportazione al confine. Mi fa pena il soldato francese/americano/tedesco/italiano/spagnolo/giapu in libera uscita e in libero ormone, ma in libertà mia di chiamarlo puttaniere. Sono nitidi nella memoria i miei occhi lucidi nel vedere il bimbo accucciato dietro il locale da serata, o nel vedere la donna immobile e senza un gemito stesa a pancia in sù dopo la caduta. Mi viene il vomito a ricordo del mio primo pensiero mentre corro in suo aiuto.
Meglio mettersi un paio di guanti.
'Meglio mettersi un paio di guanti' non è una frase. È una sillaba ripetuta, sempre la stessa. È balbuzia.
Ho vissuto Djibouti cercando di comporre frasi e discorsi ma mi rendo conto di aver balbettato parole, senza logica e nesso.
Ho vissuto la balbuzia come un balbuziente.
Eppure, eppure.
Eppure Djibouti ha l'arte di sgamarti lo stesso. Ogni anno un po' di più. Ti spoglia e ti lascia nudo. Apre il vasetto in cui è soffiata l'anima e ne rovescia il contenuto. E lo fa con gesti semplici. Una lacrima, un sorriso, una ferita, una ciabatta, un flauto, una scodella, una pacca sulla spalla, un pallone e una spiaggia, una musica e una danza, una macchina fotografica, un palloncino, un cammello, un gioco di carte, uno squalo alle cinque, uno yogurt a pranzo, del pane appena sfornato, del pane buonissimo. Lo fa con bimbi che ti vengono all'assalto e con le magliette fradicie di sudore, con i chili persi e i piedi devastati. Lo fa con gli autoscatti impossibili e i suoi personaggi improbabili.
E poi quel contenuto rovesciato rientra nel vasetto leggero e veloce. E mi piace pensare che rientri anche un pochino più felice.
Eppure, eppure.
Eppure ti salvo Djibouti. Ogni volta stravolgi la mia vita e ti prendi pezzi di carne e litri di sudore, ma ti salvo.
Ti salvo perchè ti lasci portare a casa, anche con i tuoi ricordi che mi stancano. Ti salvo perchè sei un paradosso, e credo che il paradosso sia un filo conduttore della natura umana, più dell'intrapendenza, più della curiosità.
Ti salvo perchè sempre parto con l'io, e sempre torno col noi.
Ti salvo e chissà se ti rincontrerò Djibouti, perchè le emozioni, anche quelle contrastanti, sì. L'abitudine mai.
Ti salvo e ti abbraccio Djibouti, stringo forte ciò che contieni, soprattutto i figli che hai lasciato per strada.
Ti salvo e ti ringrazio Djibouti, perchè balbetti, e lo fai esattamente come me.
Daniele
alle
12:25
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martedì 12 agosto 2014
Gibuti. Prima lettera dal fronte.
Egregio Sig. Scheletro
nell'Armadillo,
la presente per comunicarLe il
nostro arrivo a destinazione e le nostre scuse per il ritardo nella
notificazione della stessa, causa squagliamento della precedente missiva
da noi redatta; fornendoLe, qui a seguire, anche i dettagli della nostra rotta
e le ragioni della comunicazione tardiva.
ET 360 giunse rispettando il
piano di volo. In tutta sincerità Egregio, non Le nascondiamo un certo qual sgomento
collettivo che ci colse nel calpestare il 'rigoglioso' suolo locale.
Nessuno avrebbe mai pensato che, per entrare in una sauna, fosse necessario
avere il visto gibutino.
Varcata la soglia della nostra
avanguardistica e splendente dimora, un reggimento di fanteria corazzata a sei
zampe, altrimenti noto come “la Legion Scarafage” si premurò di
accoglierci calorosamente. In compenso l'acqua corrente, salata al punto
giusto, non fu altrettanto spavalda; lasciando gli onori di casa a quella umana
sgorgante da appendici nasali, arcate sopracciliari trasudanti e qualsiasi altro poro censito.
Insomma Egregio: una sudata perpetua!
Iniziata l'attività quotidiana al
Centro Caritas, unico luogo di accoglienza per bambini di strada, tra
operatori, volontari e caschi bianchi scorgemmo un fresco pifferaio
magico (proveniente dal più gradevole dei nostri sogni o del peggiore dei
nostri incubi, decida Lei) intento a domare invano, con la sua candida melodia,
8.000 crayons impolverati ed imbizzarriti.
La magia pù grande, in
verità, fu resa possibile da una colorata, terrosa e instancabile turba di
bambini, ospite quotidana del Centro. Basta una playlist (possibilmente nè di
Silvia, nè di Erika) dal retrogusto tamarro purchè africano, per trasformare
sabbia, ferite, sporcizia e samaras distrutte in entusiasmo esplosivo,
sorrisi contagiosi, intese spontanee e incroci di mani 'alla Ringo People'.
Lasciataci la vita urbana alle
spalle, partimmo per Ali Sabieh, alla ricerca del 'Sacro Crayon'. Lo trovammo
custodito amorevolmente da 'Sisters' squisite e deliziose (del budino se ne può
parlare!). Una volta rassicuratici che
il Crayon fosse in buone mani, sulla via del ritorno, nell'improvvisata
tappa della celeberrima Parigi-Dakar, registravasi un incremento di 8 lunghezze
tra la vettura in testa, pilotata da Monsigneur Bertin, sull'inseguitrice
capitanata dal ruggente mirafioreus Maldera, il quale non rassegnandosi
all'evidente distacco, optò per un segmento di pista parallelo donando a tutti
(team e bagagli) non la prima posizione ma 8 tonnellate di sabbia polverosa.
Nella speranza di non essere
stati eccessivamente pedanti, Egregio, una domanda sorge spontanea: ma Lei, è
mai stato ad Oristano?
Cordialmente, a risentirLa
La Compagnia del Maffo
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