Carissimi, dato che mi piace partire sempre da fatti realmente accaduti neanche questa volta mi esimerò dal cominciare con questa modalità.. per un post bello lungo e po' pesante - ma d'altronde ho la pesantezza dentro.. e fuori! :)
Sabato scorso sono stata a trovare padre Angelo, un missionario della Consolata di 93 anni, che è quasi una
leggenda qui a Mombasa. Si definisce più keniota che italiano considerando che
è nel Paese da ben 53 anni!
Parla
ancora perfettamente tre lingue (inglese, Kiswahili e italiano) e ha esordito
dicendomi: "ma secondo te che lingua si
parla nell’aldilà?! Sai, ci penso spesso all’aldilà, alla mia età, ma non mi
affanno mica!”.
Amorevolmente
dico che i missionari fanno parte di una categoria antropologica a parte.. e ne
sono sempre più convinta! J
Abbiamo
parlato un’oretta (ha parlato più lui a dire il vero) e poi mi ha portato in
giro, con un certo orgoglio, per mostrarmi la nuova chiesa di Timbwani.. affabile, salutava e scherzava
con tutti -“vedi, qui i bambini ti
salutano.. mamma mia, sono stato in Italia per le vacanze l’anno scorso e
ognuno va per la sua strada, nessuno ti saluta!”- camminava spedito.. un
vecchietto arzillo e ancora lucido (che manda un sacco di email!!).
p. Angelo |
Nel
discorso a ruota libera che abbiamo avuto, mi hanno colpito un paio di cose che padre Angelo ha detto e che vorrei
condividere.
Insomma, uno da un missionario di 93 anni di cui più della metà spesi in Kenya (dove peraltro vuole finire la sua vita, come ogni missionario che si rispetti) si aspettava grandi discorsoni.
E invece mi ha messo davanti due "verità" all'apparenza banali, ma che invece.. più che altro si sono inserite in alcune riflessioni che mi porto dietro da un po’ e che partono da prima, fermentano in Africa con me e ritorneranno in Italia perché si possono applicare a tutti i luoghi della vita.
Insomma, uno da un missionario di 93 anni di cui più della metà spesi in Kenya (dove peraltro vuole finire la sua vita, come ogni missionario che si rispetti) si aspettava grandi discorsoni.
E invece mi ha messo davanti due "verità" all'apparenza banali, ma che invece.. più che altro si sono inserite in alcune riflessioni che mi porto dietro da un po’ e che partono da prima, fermentano in Africa con me e ritorneranno in Italia perché si possono applicare a tutti i luoghi della vita.
Qualcuno potrà definirle un po' buoniste, altri provocatorie, molti potranno non condividerle ma sicuramente sono riflessioni
sincere e personali.
1) “Ci vuole
tanta pazienza.. bisogna volergli bene!”
Non c’è molto da aggiungere. Mi sembra abbastanza chiara come frase.. Ma non è un po' troppo semplicistica? .. eppure, quant’è difficile?! Quant’è difficile voler
bene a chi ti trovi davanti solo per il suo essere umano alla pari di te?! c'avete mai provato?
Non
voglio sconfinare nel patetismo.. ma davanti a quelli che non riesco a capire,
davanti a quelli che alcune volte proprio mi fanno girare le scatole, quando
vedo limiti insuperabili e quando sentimenti negativi stanno per insinuarsi in
me – perché lavorare con altri non è mai facile, figurarsi farlo in un contesto
culturale totalmente diverso – il voler bene incondizionatamente è quello che
mi ripeto spesso; e mi piacerebbe saperlo fare, perché forse è il metodo che salva la mia umanità e mi tiene con i
piedi a terra.
Attenzione però!!! Voler bene per me non significa lasciar
passare proprio tutto – questo potrebbe essere anche indifferenza o sintomo di una
lusinghiera superiorità – ma vuol dire cercare il confronto, dialogare sulle
cose che secondo me sono sbagliate, o giuste, per cercare una ragione, almeno per provare
a capire. E vuol dire anche correggere a volte, cosa che spesso fa male, da entrambe le parti, perché c'è il rischio di prendersi delle sberle clamorose e, poi perché chi è l’altro per potermi dire cosa devo o non devo fare?! Forse però, se l'accogliamo, questa sberla può anche farci crescere o quanto meno aiutarci nella riflessione, sempre in maniera biunivoca.
Insomma pazienza e bene richiedono un grande lavoro, ci si arriva
per tentativi e fallimenti, tanti.. e credo sia un grande, lungo, mai finito esercizio umano!
E ci colleghiamo al secondo punto
Le accettiamo nel senso che prendo l’accetta e rompo tutto?!?
Ogni tanto capita di fare anche questi pensieri.. L’accettazione è una delle
cose più difficili. Credo che ci voglia veramente un grande sforzo e una grande
maturità umana. Anche qui, bisogna sempre fare i conti con se stessi. Frustrazione,
rabbia, delusione. Quando penso di esserci, ci ricasco ogni volta.
Ci sono
obiettivamente delle cose che non dipendono da me ma che sono lì e posso solo
accettare. Posso arrabbiarmi, posso strepitare, ma il dato oggettivo non
cambia. E non l’ho deciso io. Allora veramente posso solo farmi mettere in discussione
e lavorare su me stessa.
Quello che però mi chiedo è: qual è il limite tra
l’accettazione reale e la rassegnazione?
Mi spiego.
C’è sempre il forte rischio di partire con
la presunzione di cambiare le cose: è la malattia del narcisismo e
dell’autocompiacimento.
“Ma quanto sono bravi
questi civilisti che vanno in giro per il mondo a salvare gente?!”
E' una delle frasi che mi fa venire abbastanza l’orticaria. Perché poi uno se ne convince.
E perché io sarei più brava, o moralmente superiore, di un commesso che fa il suo lavoro con passione e dedizione e in maniera egregia?!?! Chi li decide questi parametri?!
E' una delle frasi che mi fa venire abbastanza l’orticaria. Perché poi uno se ne convince.
E perché io sarei più brava, o moralmente superiore, di un commesso che fa il suo lavoro con passione e dedizione e in maniera egregia?!?! Chi li decide questi parametri?!
Spesso la realtà ci dice che torniamo a casa con la coda tra
le gambe perché non è cambiato niente, ma anzi, prevale il senso d’inutilità ed
è già tanto se almeno avvertiamo dentro qualche cambiamento.
Dato per scontato che riusciamo ad accettare la situazione così com'è, a ridimensionare le nostre aspettative rispetto al cambiamento, mi chiedo se però devo accettare
incondizionatamente anche quello che ritengo moralmente inaccettabile, o che
comunque mi turba molto.
Si parla spesso di cambiamento, ma se in nome dell’accettazione non si avvia mai un processo,
allora questo cambiamento ci sarà mai?
Non è un po’ arrendersi alla logica del
“ma tanto le cose si fanno così, ma tanto il mondo va così…”?!
Dietro questo tipo di ragionamento potrebbe celarsi il
pericolo dell’assuefazione ad un mondo ingiusto, il rischio dell’arrendevolezza
e della rassegnazione che potrebbero sconfinare nell’indifferenza. O, ancora
potremmo rassegnarci per pigrizia. A volte avviare processi è molto faticoso, perché richiede
tempo, tanto tempo, energie, forse lotte contro i mulini a vento senza alcun
minimo progresso.. mentre spesso vorremmo tutto e subito ( magari più per
appagare il nostro ego).
Qualcuno
potrebbe obiettarmi: ma chi sei tu/chi siamo noi per dire cosa è giusto e sbagliato?!
Verissimo!! Ma almeno sollevare la questione senza la pretesa di insegnare
niente a nessuno.. almeno ragionarci insieme.. si può fare?!
Quando ancora mi arrabbio davanti a
certe cose e poi ci ripenso, prima mi arrabbio di nuovo perché non ho saputo accettare la situazione, ma poi un po' sono contenta, perché, per come sono fatta, vuol dire che non sono assuefatta; magari sbaglio, ma lo trovo un bene. Forse non mantengo i modi da principessa (che comunque non mi appartengono molto.. ma non preoccupatevi perché non ho picchiato nessuno!!) ma dentro vuol dire che si smuove qualcosa. E mi fa sorridere quando i miei amici si arrabbiano ancora.. non perché sia sadica, ma perché mi dà speranza!
(ovvio, poi bisogna imparare a gestire con serenità la cosa, però intanto intravedo la speranza di chi ci crede ancora).
Allo stesso tempo ho imparato a fare i conti col fatto che non si possa aiutare a tutti i costi
chi non vuole essere aiutato, ma credo comunque che le porte debbano sempre restare
speranzosamente aperte, non per insegnare ma per accogliere, senza giudicare.
Belle parole, eh?! Ma difficile nei fatti, perché è sempre un equilibrio tra chi sono e cosa non sono, tra cosa vorrei e cosa non c'è, tra i miei limiti e le mie speranze, tra me e il resto del mondo.
Però alla fine, mi dico anche che se uno mai si mette in cammino mai raggiunge la meta..
Alla luce di queste riflessioni, mi risuonano dentro le parole di Annalena Tonelli, il cui libro mi sta accompagnando in questo ultimo periodo in Kenya.
Annalena è stata una missionaria laica cattolica che ha speso la sua vita nel deserto con i
musulmani, da sola, lavorando e curandone migliaia, senza voler convertire nessuno. E stata uccisa mentre faceva quello che amava. Lei ha avuto il coraggio e
l’umiltà di dire “Io sono nessuno”, nonostante il grande lavoro, riconosciuto anche a livello internazionale.
Tra l’altro p. Angelo l’ha conosciuta personalmente ed ero molto gasata!
Tra le tante cose che scrive c'è questo:
“Il più
grande sbaglio, il più grave delitto è quello di pretendere di risolvere i
problemi, di presumere di avere le capacità di farlo, bisogna accettare di fare
un poco per pochi, per quei pochi che il Signore ha messo sul nostro cammino,
ma quel poco bisogna farlo bene, con la massima dedizione, con la più rigorosa
onestà, con tutto l’amore possibile del proprio cuore”
Ecco,
forse è così. In Kenya, a Milano o ovunque.
E mentre continuo a ragionarci, aspetto che p. Angelo mi invii una delle sue email.. :)
Angela
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