Allungo il passo per superare un rigagnolo di acqua fetida e sono già dentro la casa del nostro amico nicaraguense. Alle mie spalle si richiude un rudimentale cancello di filo spinato e sacchi neri. “Buenos dias, que tal? ”. È il nostro approccio tipico, un po’ timido ma nello stesso tempo desideroso di penetrare nella quotidianità di questa famiglia. Nonostante l’accoglienza sia cordiale, leggo negli occhi di M. un senso di vergogna e imbarazzo. Mentre le parlo, armeggia mestamente con alcune manciate di fagioli, decisamente troppo misere per essere l’unica portata della cena. La pentola sta già bollendo, e il fuoco che l’alimenta getta tutto il fumo dentro la piccola stanza, rendendo l’aria irrespirabile. Mi si stringe il cuore a pensare che questo è il posto in cui vivono; un ammasso di lamiere e cartone costituiscono i muri portanti dell’abitazione, delimitando il perimetro di un unico ambiente in cui cinque persone dormono, mangiano e trascorrono la maggior parte del proprio tempo. Sul pavimento, in realtà nient’altro che terra battuta, un materasso serve da letto per tutta la famiglia.
La vista di una fila ordinata di stoviglie su di una mensola fa nascere un sorriso sulle mie labbra: un piccolo segno di cura e attenzione quasi inaspettato, che risalta rispetto al resto dell’ambiente. Allo stesso modo, nell’angolo, un pila ordinata di vestiti, raccolta dentro uno scatolone.
La mia visita è un’occasione per seguire questa famiglia nel “progetto latrina”: lo scopo è controllarne lo stato, ed eventualmente fornire spiegazioni e indicazioni per la manutenzione e il miglioramento delle condizioni igieniche generali.
Parte delle nostre mattinate è dedicata alle visite domiciliari alle famiglie. Entriamo in contatto con una moltitudine di storie diverse, accomunate dalla stessa realtà, ma tuttavia è impressionante notare come possano esistere differenze tanto nette anche nella povertà.
Ritornando verso la mia casa nica, mi viene da pensare che sembriamo appartenere proprio a due mondi diversi. Diverse le risorse, diverse le possibilità, diversi gli orizzonti e le prospettive per le proprie vite. Ogni mattina, la maggior parte di loro non può permettersi di pensare ad altro che al giorno presente, così da vivere senza ambizioni e progetti per il proprio futuro.
Mentre noi possiamo programmare le nostre esperienze, pianificare i nostri studi, immaginare nuove esperienze. In poche parole, fantasticare sul nostro futuro.
Ogni visita al barrio è quindi ogni volta un’emozione molto intensa, che genera in me disorientamento e confusione. Talvolta anche un po’ di rabbia.
Dopo ogni giornata però, possiamo tornare nelle nostre oasi di pace, il Guis e Redes.
Sono due strutture curate a partire anche semplicemente dall’aspetto estetico, poiché colorate e piene di verde, ma soprattutto per l’impegno nel lavoro e l’attenzione verso i ragazzi. Questi infatti possono godere di progetti studiati su misura da un personale preparato e disponibile, hanno spazi per il gioco inesistenti nel barrio, e, per quanto possa a noi sembrare scontato, hanno due pasti giornalieri assicurati. Sforzi ripagati da un sorriso sempre presente sui loro volti.
Anna e Fabio
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