martedì 3 settembre 2013

Etiopia: “Bhè, allora, è già tutto finito?”. “No, è appena iniziato!”



Non è bello trovarsi improvvisamente soli nella propria camera in compagnia di un topo di peluche, o meglio di un armadillo, che ti fissa con aria di sfida come a dire: “Bhè, è già tutto finito?”.

In un certo senso è complesso rispondergli: alla fine te lo sei portato in giro per un bel po’ infilato nello zaino, l’hai dato in mano a persone appena conosciute, l’hai fotografato nelle pose più strane, cosa vuoi dirgli ora?

“Sì, è tutto finito.”

Il rientro è stato un po’ così: una Milano desolatamente vuota, una mattina di Agosto che già preannunciava l’autunno imminente, il pensiero che il giorno dopo si tornava in ufficio.

Come scrive Kapuściński nell’incipit di Ebano (una lettura che mi ha fatto compagnia in queste settimane, consigliata a tutti i cantieristi africani) l’aereo ti strappa via bruscamente da una realtà e ti ripiomba in un’altra senza lasciarti il tempo di acclimatarti, ti trovi scaraventato in un altro mondo senza poter reagire. L’urto può essere doloroso, il disorientamento lascia senza parole.



La prima cosa che ho avvertito è stata il silenzio, quello che mancava era il rumore della gente, delle strade affollate, del traffico delle auto, delle risate dei bambini, delle voci dei compagni di viaggio.

Come spiegare un’esperienza come questa, come raccontarla agli altri e in un certo senso come riappropriarsene cercando di distillarne l’essenza.

Ce lo siamo ripetuti continuamente per tre settimane: “No, non è possibile che sia passato così poco, sarà almeno qualche mese che siamo qui...”

Se ripenso al giorno dell’arrivo sembra che appartenga ad un’altra epoca: aeroporto di Addis Abeba (in amarico significa il fiore nuovo, qualcosa l’abbiamo imparato), cielo grigio gonfio di nuvole (in fondo è la stagione delle piogge, cosa ti aspettavi), in un parcheggio affollato di auto qualcuno si sbraccia per farsi vedere, è lì per noi, ci sta aspettando.




Per quanto questo possa sembrare un gesto scontato dice molto dell’esperienza che abbiamo vissuto: accolti in ogni momento da persone che non ci conoscevano, ma che hanno avuto cura di noi e che ci hanno fatto sentire a casa. Chi si poteva aspettare un piatto di pasta al pesto appena arrivati nella comunità delle suore ad Addis?

Poi siamo partiti. Una strada lunghissima senza curve, nell'oscurità della sera, sotto un fitto acquazzone.  È forse qui che è iniziato il nostro viaggio. Sempre più lontano da casa andando nel profondo di questo paese e di questa esperienza. Destinazione Wolisso, la nostra nuova casa.



Sono state settimane intense. Il gioco con i bambini al mattino, la visita all'ospedale nel pomeriggio. L’incontro con le realtà del posto: il carcere, l’orfanotrofio. L’incontro con nuovi amici: la comunità delle Figlie della Misericordia e della Croce, i medici del CUAMM, gli scout di Wolisso, padre Ermanno a Getche. Le strade che abbiamo percorso più o meno comodamente sulla nostra jeep o sul bajaj. La bellezza del paesaggio che ci circondava. Le serate passate insieme a chiacchierare, a condividere i nostri desideri, la nostra voglia di futuro. La preghiera nella cappella delle suore mentre fuori risuonava il richiamo del muezzin dalla cima del suo minareto e le voci della chiesa ortodossa.

Tornati a casa, forse è proprio da qui che bisogna ripartire. Come spugne siamo stati immersi a lungo in acqua, dobbiamo riconoscerlo. Siamo carichi di emozioni, di sensazioni, di immagini. Dobbiamo essere capaci di raccontarci agli altri, di condividere la nostra esperienza goccia a goccia perché nulla vada sprecato.

Purtroppo le stelle le abbiamo viste una sola volta (era sempre nuvoloso, in fondo era la stagione delle piogge, cosa ti aspettavi), ma porto ancora nel cuore il senso di infinito che lo spazio illimitato intorno a noi ci ha dato, l’orizzonte senza fine, il cielo tutto intorno.

“Bhè, allora, è già tutto finito?”

“No, è appena iniziato!”

Andrea Bianchessi

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