domenica 20 dicembre 2015

I COLORI DEL PERCORSO

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Tutte le mattine lasciamo la nostra abitazione a Kahawa West e, camminando per circa venticinque minuti, raggiungiamo la Cafasso house, luogo dove prestiamo servizio. Lasciandosi il cancello alle spalle la prima cosa che si nota sono i grigi palazzi, daltronde è una periferia, fatti di blocchi di cemento. Unica cosa che spezza il cupo grigio delle costruzioni sono i vestiti stesi sui balconi ad asciugare.Svoltato l'angolo si continua per la strada in terra battuta tra i primi baracchini che vendono un pò di tutto e mucchi di spazzatura che brucia, qua è cosa normale accumulare la spazzatura ai bordi della strada per bruciarla.


In soli cinque minuti oltrepassato un parcheggio per matatu (tipicamente bianche con una striscia gialla nel mezzo) ci si addentra nel mercato, qui colori ed odori si sovrappongono. Ci sono frutti che vanno dall'arancione, come il mango, al viola ,come il passion fruit. Sono presenti materiali per la casa dai colori più svariati, rosa, arancione o azzurro. Le pentole di tutte le dimensioni color metallo che riflettono il sole. Poco dopo dal mercato si passa alla strada principale sempre circondata da appartamenti che ,a differenza delle stradine secondarie, al piano terra contengono negozi di ogni tipo, materiale elettrico e meccanico, macellerie e supermercati, ristoranti e rivenditori di telefonia. I colori che troneggiano lungo questa strada sono il rosso delle insegne dei ristoranti, insegne marcate coca-cola, e il verde delle insegne Mpesa e Safaricom ovvero la compagnia telefonica che domina l'economia keniota, addirittura lo stadio principale è marcato Safaricom.

Strada principale
Ai bordi delle strade ci sono pozzanghere color nocciola, è periodo di forti piogge, da quando sono in Kenia non ho ancora visto il vero colore dell'acqua.

Cava di pietra 
Dalla strada principale ci si addentra nel compound dei carceri, un breve saluto alle guardie nella casetta di lamiera all'ingresso e subito ci si trova immersi in enormi campi di fagioli, crescono rapidi, si vedono solo loro per centinaia di metri. Questa è la zona più pacifica dei dintorni, ebbene sì, proprio il compound delle prigioni.


Poco dopo sulla destra vi sono le costruzioni che compongono il YCTC, un carcere minorile, davanti a queste costruzioni vi sono i campi di mais e sukumawiki dove lavorano i ragazzi con uniformi blu notte. Ci salutiamo sempre.
Passato il YCTC ci si addentra in un complesso di casupole alcune di cemento altre di lamiera prima di raggiungere la medium prison, dove ci sono persone con pene fino a dieci anni. Molti dei arcerati lavorano fuori, tagliando erba o sistemando le strade del compound. La maggior parte delle guardie li osserva mentre smanetta con gli smartphone.
Ora manca poco, un boschetto di alberi sottili sulla destra, e sulla sinistra il grigio muro alto una dozzina di metri della Maximun prison, fatto di pietre e cemento.
In breve si raggiunge la Cafasso house accogliente come sempre, muro giallo e verdi campi con varie coltivazioni.

E' un piacere stare qui, un'altra giornata ha inizio...

venerdì 18 dicembre 2015

Indonesia: Batik solidale

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Manca ormai poco meno di un mese al nostro rientro di metà servizio in Italia e ci stiamo muovendo per promuovere una piccola raccolta fondi, durante il mese di Gennaio quando saremo a casa.

Durante questi mesi abbiamo lavorato presso Caritas Sibolga, con sede a Gunungsitoli, piccola città principale sull'isola di Nias. 
L'idea che abbiamo proposto è stata quella di riuscire - tramite la vendita di borse realizzate artigianalmente in tessuto batik dalle ragazze che hanno frequentato il corso di cucito attivo presso il Caritas Centre (sono sei i corsi attivi attualmente: cucito, ricamo, trucco tradizionale, meccanico, computer e cucina) - a finanziare l'organizzazione delle attività sociali organizzate proprio dai corsisti presso strutture quali orfanotrofi o case di riposo sul territorio di Gunungsitoli.

Parallelamente, insieme alle ragazze ospiti del centro di riabilitazione Fodo, gestito da un gruppo di Suore Francescane, abbiamo realizzato zainetti e piccoli astucci, il cui ricavato dalla vendita sarà utilizzato per terminare i lavori di costruzione di un parco giochi per bambini, adiacente alla struttura.

Il nome della pagina Facebook che abbiamo creato è Batik solidale https://m.facebook.com/Batik-solidale-684731858296436/
Se vi piace qualcosa e volete aiutarci in questa avventura contattateci pure tramite Facebook, durante il mese in cui saremo a Milano potremo incontrarci per la consegna. 

Un caro saluto a tutti!





giovedì 10 dicembre 2015

"Quanto dista Roma dall'Italia?"

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sei sposata”
quanti figli hai?”
quanto dista roma dall'Italia?”
ma da voi ci sono gli street children?”
davvero c'è disoccupazione in italia?”
ci sono le sirene da voi?”
ma anche tuo padre è mzungu(bianco)?”

Queste sono alcune delle tipiche folli domande che ci vengono fatte da quando siamo arrivate. E il problema è che è difficile rispondere. Se fossi in Italia magari riderei al solo sentirle, ma qui alcune non fanno poi tanto ridere. Però queste domande, e le relative risposte rappresentano un incontro. 
Mi sono interrogata spesso sul senso di cultura intercultura intracultura ma, come dire, finché non ti trovi nel mezzo a tutta questa roba non capisci fino in fondo. E tutt'ora continuo a chiedermi: cos'è la cultura? Che forma ha? È come uno zaino di cui ci portiamo il peso sulle spalle o come un paio di occhiali attraverso i quali guardiamo il mondo o come un corso d'acqua che cambia continuamente forma ma viaggia sempre sullo stesso percorso. Certo quest'ultima immagine sembrerebbe la più adatta all'incontro con le altre culture (immagino dei corsi d'acqua che si incontrano si mescolano si ridividono). E' anche vero però che l'acqua è un elemento troppo libero per paragonarlo ad una cultura che a volte sembra più una corda.

Ci provo con tutta te stessa ad essere priva di giudizi ad abbracciare la cultura che mi ospita con estrema umiltà apertura e voglia di imparare ma, ogni tanto, non posso fare a meno di arrabbiarmi, imbarazzarmi, sentirmi frustrata, spiazzata, meravigliata o senza parole. Quel poco che ho capito da quando sono qui è che devo togliere i miei occhiali e cambiare modo di vedere le cose. Ogni volta che mi sembra di aver capito qualcosa, sono costretta a cambiare direzione di pensiero e ricominciare il ragionamento da capo.

Ad esempio, una questione che mi ha profondamente spiazzato nonostante la mia preparazione, e mi fa salire una rabbia folle, è il convivere con bambini che vivono in strada. Gli street children. La società, la comunità, il vicino di casa, io stessa e il mondo intero, chiunque dovrebbe avere il dovere in quanto essere umano di aiutare e prendersi carico di un bambino che non ha una famiglia e un posto dove stare.
È contro natura per il mio modo di pensare, e invece qui è il quotidiano. E questo vale per gli slum, la gente che vive nelle discariche e molte altre forme di povertà estrema che si trovano qui. E questa povertà qui convive a braccetto con il lusso o comunque con certi stili di vita a là occidentale. Tra questi estremi ci sono io che non riesco a collegarli, non sono capace di capire come possano coesistere. Anche da ciò ho capito veramente quanto la nostra etica sia strettamente collegata alla piccola realtà nella quale viviamo. Molto probabilmente non devo capire, solo accettare questa realtà così com'è, ma anche questa non è cosa da poco.

Poi per esempio rimango colpita, non in senso negativo, dalla apparente inerzia di molti uomini che se ne stato tutto il giorno fermi sdraiati da qualche parte o a giocare a dama. È strano da vedere per me che vengo da una società nella quale se non corri sei un vagabondo, uno scansa fatiche, un poco di buono. Da noi tutto è scandito da orari: quelli delle lezioni, del treno, del cinema, del lavoro...
 Qui il tempo ha un senso diverso e quando provo a pianificare qualcosa c'è un imprevisto che fa sballare i miei piani. E anche la reazione della gente alle avversità è una cosa che mi stupisce enormemente. E non sto parlando di fatti gravi, solo di cose semplici della vita di ogni giorno: l'autobus che prendi fa un incidente, si incaglia in una delle immense voragini della strada, viene fermato dalla polizia che fa scendere tutti oppure si ferma in mezzo al niente tra Malindi e Mombasa e non riparte più (parlo per esperienza personale...). 
Ecco la gente in questo caso che fa? Niente. Si ferma e aspetta che tutto si risolva. Nessuno urla, nessuno impreca, nessuno perdere la pazienza. Tutti aspettano che la situazione si risolva. Perché qui in Africa prima o poi sembra trovarsi una soluzione per tutto. E le attese vuote sembrano non dar fastidio proprio a nessun mentre a me hanno sempre creato una certa dose di ansia.

In ultimo, mi meraviglia la città in cui vivo. Mombasa è un luogo dalle mille facce che mi stupisce in continuazione. Giri l'angolo e sembra di stare in Medio Oriente, poi nella savana africana, in un villaggio masai, in un resort extralusso di qualche isola caraibica, di fronte alla peggiore discarica o in India a pregare in un tempio indu. Qui convivono 42 tribù con altrettante lingue diverse e un discreto
numero di religioni e usanze religiose diverse, tutte le gradazioni di pelle che si possono immaginare e tanto altro ancora. E tutto ciò avviene in maniera naturale. Vedere queste interazioni ha su di me un effetto molto potente perché ritengo di appartenere ad una cultura generalmente omogenea e omogeneizzante. Lo società in cui vivo richiede la omologazione a valori, tradizioni e interessi comuni e poco differenziati. E l'integrazione è una parola spesso priva di significato concreto o comunque che contiene molti ambigui significati.

Per questo mi sento spesso in difetto, come se la mia cultura di appartenenza non fosse abbastanza allenata all'incontro con questo mondo e questo immenso agglomerato di culture, apparentemente schizofrenico ma, in un suo modo bellissimo, dotato di incredibile armonia. Riassumendo, il rapporto della mia cultura, qualunque forma essa abbia, è fatto di costanti contraddizioni, momenti bellissimi di incontro e meraviglia e momenti di forte rabbia e frustrazione. 




Sarà questa costante contraddizione che mi rende ogni giorno più affamata di stare qui. 

Mari

lunedì 7 dicembre 2015

Haiti: Giù al Nord

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"La prossima volta che mi parleranno di Salerno - Reggio Calabria sorriderò. Anche da questo punto di vista il Servizio Civile è terapeutico"

A metà novembre siamo stati per qualche giorno in trasferta nel nord-ovest haitiano. Anche se dell'Haiti che siamo abituati a vivere e vedere qui in capitale ha poco a che fare.
Partiamo dalla missione degli Scalabriniani in un bel gruppetto. Oltre a me, Laura e Marta ci sono Davide (SCE della Papa Giovanni XXIII), Elisa e Luca, suoi parenti. Special guest; don Claudio - fidei donum a Mare Rouge - e don Antonio, responsabile della pastorale missionaria della diocesi di Milano.

Foto di gruppo (quasi al completo) in pieno stile coloniale francese
In due ore arriviamo a Gonaives. Qui ci aspetta un cambio d'auto che ci accompagnerà fino a Mare Rouge. E' da questo momento che rivivo in prima persona tutto il tempo speso a giocare a Colin McRae Rally alla Playstation da adolescente! Davanti a noi quattro ore di viaggio su strade bianche con qualche lingua di asfalto qua e là....il resto è sterrato e vibrazioni !

Quando si dice che "l'importante è il viaggio e non la meta"....in questo caso entrambi! I paesaggi incontrati cambiano in successione come delle scenografie in uno spettacolo teatrale: zone sconfinate di verde, saline, zone più aride, tratti di percorso costeggiando il mare....per poi arrivare ad appoggiare i piedi sulla terra rossa.

I cosiddetti "bloquis" e "desord" della capitale sembrano un lontano ricordo. In queste zone al massimo si incontrano jeep e pickup fermi a bordo strada per cambiare pneumatico oppure camion che, oltre al materiale trasportato, danno uno strappo ad un folto gruppo di persone incastrato in ogni dove.

Dopo una veloce sosta a Tiriviere - dove abbiamo avuto modo di vedere la scuola e il dispensario da poco costruito - arriviamo alla parrocchia di Mare Rouge. Qua ad accoglierci ci sono altri tre fidei donum ambrosiani: don Levi, don Mauro e Madda.

Le persone incontrate al nostro passaggio sembrano accennare con maggiore disponibilità un saluto o una specie di sorriso. Saranno le dimensioni meno metropolitane dei villaggi da cui passiamo oppure l'abitudine a veder girare per le strade dei bianchi...chi lo sa?
Rimanendo comunque dei "moun blanc" (letteralmente uomo bianco...niente a che vedere con il famoso marchio di penne), siamo sorpresi nel sentirci rivolgere anche un "nou bel!" da parte di alcune donne impegnate a lavare i panni nel fiumiciattolo che stavamo guadando.
Il problema è che in creolo "nu" viene usato sia per la prima persona plurale sia per la seconda.

Ci piace vedere il bicchiere mezzo pieno e interpretarlo come un "siete belli!". C'è sempre una prima volta !




A Mare Rouge, oltre a trascorre un pomeriggio con i ragazzi della parrocchia, abbiamo avuto modo di conoscere l'Aksyon Gasmy: un'associazione costituita da volontari e professionisti haitiani (artigiani, fiseoterapisti, maestri) che seguono da vicino la realtà dei bambini con disabilità presenti in più villaggi della zona.

Il giorno successivo è già tempo di spostarsi. 




Dopo un'oretta di strada raggiungiamo Mole Saint Nicolas, località toccata dal nostro Cristoforo Colombo durante il suo viaggio verso le Indie.
Qui siamo accolti da una simpatica comunità di suore italiane provenienti da differenti congregazioni.

La domanda allora è sorta spontanea: ma quante congregazioni femminili esistono nella chiesa? Rimarrà un segreto o Piero Angela sarà in grado di dircelo prima o poi?

Al momento le suore di Mole si sono limitate a spiegarci le caratteristiche di ogni congregazione di appartenenza.
Misteri della chiesa a parte, la loro piccola comunità - situata in un luogo così bello ma altrettanto dimenticato di Haiti - ci ricorda l'importanza di vedere, in tutte le cose, prima ciò che ci unisce e successivamente ciò che ci rende diversi.

A Mole abbiamo avuto la fortuna di navigare  sopra uno splendido lembo di mare che separa le due piccole penisole, il cosiddetto canale del vento.


Giunti su una di queste due estremità abbiamo incontrato alcune persone che vivono in questo spazio lontano dal centro abitato di Mole. Sono famiglie che vivono per lo più di pesca.

Incontrando proprio uno di loro che stava rientrando con il carico di pesci tra le mani veniamo a conoscenza che la scuola presente nel villaggio non è più in funzione. I maestri se ne sono andati perché non ricevevano più lo stipendio. Chi può e vuole frequentare la scuola deve raggiungere il centro abitato di Mole....non proprio dietro l'angolo.


Con tanti pensieri nella testa facciamo rientro alla comunità delle suore. Giusto il tempo per un bagnetto e una foto di gruppo. Il giorno successivo, di buon ora, ci aspetta un bel viaggetto: direzione Port au Prince!


Matteo



sabato 5 dicembre 2015

PIU' VICINO AL CIELO

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Sono due mesi di Moldova, due mesi lontano da casa, due mesi di una nuova quotidianità che poi mi fa sentire a casa anche qui.
E, inevitabilmente, non riesco a non pensare a tutti quelli che una casa non ce l’hanno. Allora i miei pensieri si focalizzano sulle facce, ormai diventate familiari, di un gruppetto di senzatetto che tutti i pomeriggi aspettano da noi un pasto caldo; meglio se è una zuppa, che con questo freddo pungente  ti riscalda pure un po’. Nella mia testa li ho soprannominati “la famiglia dei Boschettari”, perché più che la mancanza di una casa, che anche quella è fondamentale, mi fa più paura pensarli soli, la notte, senza neanche un viso a cui pensare.
E confesso che a volte ci penso, alla classica domanda che nasce spontanea su tutti noi quando ci troviamo davanti ad una persona sporca, coi vestiti bucati e la barba troppo lunga: ma come ha fatto a finire in strada? Avrà fatto degli sbagli? Più di quanti tutti i giorni ne facciamo noi? (Che poi: chi giudica a chi giudica?)
La risposta non ce l’ho, e va bene così, magari un giorno saranno loro a raccontarmelo, ma solo perché lo vorranno. Magari non me lo diranno mai, ma per me è lo stesso. 



Nel frattempo mi fermo e mi metto a guardare i loro occhi vispi; negli occhi non c’è sporcizia, non c’è nessun abito bucato o una barba incolta. C’è solo un uomo. E mentre si avvicina con la mano tesa, non sono sicura che abbia fame solo di cibo. Mi piacerebbe mettere nel piatto anche una carezza affettuosa, un abbraccio caldo e un po’ di sogni per il futuro. E’ così bello poter permettersi il lusso di pensare al domani, chissà come se lo immaginano loro; e se provano paura o rassegnazione, non è proprio giusto: il futuro deve essere di tutti.

Mentre ha preso il suo piatto e si è seduto a mangiare, però, ho fatto un’altra scoperta: tra me e il Cielo c’è un tetto di mezzo, invece lui.. Lui è più vicino al Cielo!


I discorsi di due grandi

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Il Pontefice e Il Fundi: come parlare ai giovani
The Holy Father, His Holiness Pope Francis – il Pontefice – è venuto anche qui in Kenya dal 25 al 27 novembre ed anche i servizio civilisti presenti nel paese sono andati a sentirlo!!!
Venerdì 27 novembre ci alziamo di buona mattina, sebbene il discorso sia alle 10.00 e lo Stadio sia a soli 20 minuti di matatu da casa nostra: si prospetta un delirio nello stadio stesso e per strada. Fatto sta che alle 6.30 prendiamo il matatu ed effettivamente ci sediamo alle 9 dopo una serie di code e controlli, quindi la nostra previdenza è stata ricompensata.
Al contrario di ieri alla messa in Università, il Papa ritarda un pochino e prendiamo qualche goccia di pioggia, poi il cielo si apre ed esce fuori un sole bello caldo. L’atmosfera però è già calda, solare, gioiosa, armoniosa, felice di per sé: c’è musica; un uomo incita la folla in Kiswahili e ci si scalda facendo una serie di “ole” che partono da una parte dello stadio fino all’altra, da brividi sulla schiena per il perfetto coordinamento!
E, finalmente, il Pontefice arriva: mani in alto, folla in delirio… Dopo poco Papa Francesco inizia il suo discorso conciso, breve e verso mezzogiorno guarda l’orologio chiedendo a noi giovani se abbiamo fame perché è quasi ora di pranzo e quindi a breve concluderà il ragionamento.
Quello che più mi ha colpita dal discorso di Francesco è stata la sua chiarezza e trasparenza riguardo il tema della corruzione e del creare relazioni vere, concrete, di vicinanza.
La corruzione è ovunque anche in Vaticano; è qualcosa che mangia da dentro e le persone corrotte non vivono la loro vita in pace. [..] La corruzione non è un cammino di vita ma un cammino di morte. […] La corruzione è come zucchero, dolce, facile; ti piace, è ovunque ma alla fine ti rovina da dentro come il diabete e così anche il paese diventa diabetico”.
Questi sono alcuni appunti che ho preso direttamente allo Stadio Kasarani, confrontati con quanto scritto nel giornale settimanale The EastAfrican (November 28 – December 4, 2015).
E poi il Papa continua dicendo che le espressioni facciali, le parole, i sorrisi servono per comunicare anche con i bisognosi e le persone non accettate dalla società. Si sofferma sui giovani e sui bambini, così come sugli anziani, dicendo che ciascuno deve fare tutto in suo potere per difendere la famiglia e “Se non ricevi amore, dona amore; se sei da solo, cerca gli altri”.
Ecco che allora conclude chiedendo a noi giovani di prenderci per mano, tutti insieme, perché “Noi siamo tutti una nazione, e così è come i nostri cuori dovrebbero essere”.






Venerdì 4 dicembre, giorno come tutti gli altri, unica eccezione è che oggi si cercherà di portare a termine la costruzione della nuova stalla a Cafasso.
La campana che avvisa che il pranzo è pronto suona alle 12.30, ma nessuno dei ragazzi, contrariamente al solito, si muove dalla posizione in cui è: i ragazzi, i fundi (esperti/tecnici), Gianluca, Felix sono tutti a lavorare sotto la stalla cercando di sollevarla di circa un metro, un metro e mezzo dalla posizione di partenza. Non vedendo arrivare nessuno anche noi donne (House-mother, sister, Angeline ed io) e dopo aver preparato i piatti, ci rechiamo anche noi alla stalla per osservare il lavoro: tutti concentrati, ciascuno al proprio posto, un vero e proprio gioco di squadra perfetto.
Circa un’ora dopo, quando tutta la costruzione è messa a norma, il capo fundi comunica ai ragazzi che ora si può correre a mangiare in quanto molto affamati, ma che nessuno dovrà lasciare la sala da pranzo prima che lui dica alcune cose. La curiosità nasce in tutti, ma vince la fame: tutti di corsa in sala da pranzo!
Ecco che Waboni, così è il nome del capo fundi, esce dalla stanza da pranzo e vi ritorna con due casse: una piena di pane e l’altra di bibite in completo silenzio, la suspance e l’interesse aumenta.







Passa tra i ragazzi un foglio bianco con al centro un piccolo pallino nero e Waboni ci interpella chiedendoci cosa vediamo e rispondiamo: “Un pallino nero disegnato su un foglio bianco”.
Ecco che il fundi inizia, quasi come un grande saggio, a parlare: abbiamo visto e dedicato attenzione tutti subito al punto nero e il foglio bianco è stato tralasciato in secondo piano; questo è un po’ un paragone della nostra vita poiché la vita è come se fosse il foglio bianco pieno di esperienze da fare e vivere ma noi ci soffermiamo la maggior parte sui punti neri, ovvero quelle delusioni, quelle preoccupazioni e quelle difficoltà che ci preoccupano.
Quindi, tornando al foglio, i punti neri sono una parte insignificante del foglio ma questi occupano la maggior parte dei nostri pensieri quotidianamente, lasciando poco spazio ai momenti positivi; ci ha invitato quindi a dedicare maggior attenzione e cogliere prevalentemente il bianco rispetto al nero, le risorse degli altri in questo caso rispetto alle loro mancanze.













Poi Waboni ci ha mostrato un coperchio pieno di fango e ha chiesto cosa vedevamo, la risposta ovvia di tutti è stata: “Solo del fango”; invece muovendo il fango c’era al di sotto un pezzo di carta che sembrava un semplice foglio con delle scritte sopra ma, lavandolo con acqua, in realtà era una banconota. Ciò a significare che se non poniamo attenzione nelle e alle cose non ci accorgiamo nemmeno del loro valore e di come in fretta, solo con del fango, le cose stesse possono cambiare valore se non valorizzate.
La reazione dei ragazzi è stata di grande ed immensa sorpresa alla fine e di ascolto completo durante tutto il discorso del fundi!


Un abbraccio a tutti,
prestissimo ci si rivede!

Ire


martedì 1 dicembre 2015

Chi ha ragione? Ovvero Pacala e Tandala

3 commenti:
L’identità nazionale è una questione aperta in ogni Paese del mondo e la Moldavia non fa eccezione. Come si vedono i cittadini moldavi? Chi ha ragione?

Statua di Stefan cel Mare, simbolo della Patria Moldova
Alcuni si considerato moldavi al 100%, alcuni si considerano romeni,  altri ancora si considerano russi (e per questo non vogliono imparare la lingua romena, la lingua ufficiale della Moldova sin dal 1989). I primi pensano che la Moldavia abbia il diritto e il dovere di esistere come Stato a parte, i secondi pensano che sarebbe meglio per tutti riunirsi alla Romania, gli ultimi vorrebbero far diventare la Moldova un’appendice della (loro) cara vecchia Russia. Chi ha ragione?


Mappa della Transnistria
La Moldova ha al suo interno un territorio che ufficialmente fa parte della sua Repubblica ma che in realtà si è auto-proclamato Stato indipendente: la Transnistria. Poco importa se nessuno lo ha riconosciuto come Stato autonomo, questo Paese (?) si sente ancora troppo legato all’URSS o a quello che ne rimane, cioè la Russia attuale, per poter far parte della Moldova. Per questo la Russia finanzia le casse di questo “staterello” la cui economia, appunto, dipende de facto dai finanziamenti russi e dal traffico di armi (di cui la Transnistria è abile produttrice).

Questo territorio gode di leggi proprie, frontiere proprie, moneta propria. I suoi cittadini hanno la carta d’identità transnistriana ma, a livello internazionale, sono considerati cittadini moldavi. Le loro automobili hanno la targa transnistriana, possono circolare (perché tollerate dalle autorità) sul suolo moldavo ma non possono assolutamente andare all’estero (ufficialmente, quella targa non esiste). La Moldova rivendica l’appartenenza di quella regione, la Russia invita i propri cittadini ad andare in vacanza e, magari, trasferirsi in Transnistria per aumentare la propria influenza. Chi ha ragione?

Bandiera "ufficiale" della Transnistria

Targa della Transnistria





Difficile capire una volta per tutte chi ha ragione, ma ci si prova.


Nel frattempo riporto qualche storiella di Pacala e Tandala, due personaggi tipici della letteratura Moldava. Sono i classici furbetti/ladruncoli ma, in fondo in fondo, bonaccioni che ispirano sempre la simpatia del lettore. Chissà mai che non possano aiutare a capire meglio la realtà moldava?

Il ricco è ricco dappertutto
Viveva una volta in un paese un uomo rispettabile. Un bel giorno – non si capisce come e perché – si ammalò e i famigliari lo trovarono morto stecchito nel suo letto.
Gli fecero il funerale e lo portarono al cimitero. Ma al momento di calarlo nella fossa avvenne un miracolo: il morto si alzò dalla tomba, si fece il segno della croce e incominciò a raccontare tutto quello che aveva visto nell’altro mondo.
Che cosa era successo? Come mai? Aveva perso i sensi.
Ora, la moglie del più ricco del villaggio venne a sapere che un uomo era resuscitato e lo mandò a chiamare. Lo fece entrare nella corte e gli domandò se avesse visto suo marito nell’altro mondo.
-          Eh! Signora mia, sì che l’ho visto quel riccone di tuo marito. È ricco anche là.
-          Bene! E che cosa faceva? – domandò la riccona, tutta contenta per il fatto che il marito era ricco anche nell’altro mondo.
-          Niente! Il tuo riccone giaceva su un letto di ferro in mezzo alle fiamme e non faceva nulla, mentre io, che anche lì facevo il servo, mettevo la legna per alimentare il fuoco. Vedi, un vero signore è signore dappertutto.

Illustrazione di Pacala e Tandala
Mi porta via il vento
Un ladro si intrufolò nell’orto per rubare un cavolo. Il padrone se ne accorse e lo colse sul fatto.
-          Ladro, cosa fai qui?
-          Il vento mi porta via e allora mi sono aggrappato a questo cavolo per non volare via.

Il servo arguto
Un possidente doveva decidere se tenere il servo per tutto l’invero o se licenziarlo. Nel cortile c’era un gatto e il padrone domandò:
-          Ehi, Pacala, guarda là in cortile cosa c’è?
-          C’è un gatto, padrone.
-          Ma no, Pacala, non è un gatto, è un orso.
-          Padrone, non può essere, io ci vedo bene, è un gatto vero e proprio, - rispose il servo, che non capiva le intenzioni del padrone.
-          Pacala, se insisti a dire che non è un orso ti licenzio perché non sei obbediente.
-          Bene, padrone, è un orso, ma è  piccolo.
Il padrone capì che il servo era arguto e gli fece il contratto per tutto l’inverno.
Quando venne la primavera, la stagione in cui i mungitori erano pagati bene, l’arguto servo volle mettere alla prova il padrone. Sul tetto della casa c’era lo stesso gatto del precedente colloquio e il servo disse:
-          Padrone, guarda, sul tetto c’è un orso!
-          Sei ubriaco, Pacala? Non è un orso, è un gatto.
-          Padrone, se non è un orso me ne vado e non lavoro più per te.
Il padrone, che aveva bisogno di un servo, rispose:
-          Hai ragione, Pacala, è un orso, ma piccolo.






lunedì 30 novembre 2015

Indonesia: Keluarga Alma Nias ovvero una nuova grande famiglia

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Oggi sono due mesi che sono qui. Ed oggi voglio presentarvi la mia nuova grande famiglia composta da 32 bambini, 3 suore e 7 ibu. 

Lo so, 32 bambini sono tanti ed io non sono abituata ad avere molta gente per casa.

TRENTADUE bambini che si svegliano alle 5.30 e devono lavarsi e prepararsi. Alle 6, quando apro gli occhi e mi rigiro ancora un pò nel letto, li sento cantare e chiacchierare e quelle voci sono un pò come l'odore del caffè a Milano, significano casa.

Questi 32 bambini vivono a Wisma Alma per tante ragioni diverse. Alcuni di loro sono orfani di uno o di entrambi i genitori, altri sono stati abbandonati o rifiutati ed altri ancora portano con sé una qualche forma di disabilità. 

A volte mi fermo e li osservo da lontano. A volte rifletto sulle loro vite e sulla mia e sul motivo di questo intreccio. E a volte penso al loro grande coraggio e al fatto che nulla nella vita potrà più scalfirli, perché hanno già ricevuto la loro dose di dolore. 
Altre volte ancora mi stupisco di fronte a tanto amore. Al loro sentirsi come fratelli, al loro aiutarsi l'uno con l'altro, perché in fondo sono tutto ciò che hanno.

Ognuno di loro mi sta insegnando qualcosa, qualcosa che porterò con me: da Forman ho imparato l'amore, da Rena la gioia, da Igo la pazienza e da Diman l'attesa. 

Vedere i loro sorrisi, ogni giorno,  mi da la forza per affrontare questa esperienza. E quando scendo dalla macchina dopo una giornata in ufficio, trovo loro ad aspettarmi. Trovo loro che urlano "Siska, Siska" e che mi prendono per mano e mi accompagnano fino alla porta di casa. E questa adesso è la mia forza. 



giovedì 26 novembre 2015

Partire con la valigia leggera.

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Haiti: questo nome si è infilato prepotentemente nella mia testa ormai 8 mesi fa.
Interessata al servizio civile all’estero e al progetto di Caritas Ambrosiana, mi ero buttata nella lettura di Impronte di Pace  e dei vari contesti in cui i servizio civilisti si sarebbero inseriti: Kenia, Georgia,Libano,…HAITI.

I dubbi e la consegna della domanda, i colloqui, la selezione, la decisione definitiva e il giorno dell’uscita delle graduatorie. Era fatta: partivo.

Ma come sarà Haiti?Forse non è normale,forse è superficiale ma non mi sono creata molte aspettative sull’ambiente, il contesto, Kay Chal: sono partita con la “valigia” molto leggera.
Siamo qui solo da un mese e mezzo e non credo di conoscere il paese in cui mi trovo. Non posso scrivervi un saggio su cos’è questa isola e farvi una riflessione approfondita sulla storia e la politica del Paese; però  Haiti ora per me è diventata reale e quotidiana e quindi, quello che posso fare è provare a spiegarvi cos’è e com’è per me,ora,Haiti.

Haiti è strade, ghiaia e sassi bianchi in città che con la luce del sole mettono a dura prova la nostra retina. E’ terra rossa e fango al nord, è spiagge bianche e mare blu cobalto (alla fine siamo pur sempre ai Caraibi).








E’ mattoni, cemento, muri e filo spinato che circondano molte case. E’ tap tap coloratissimi con fiancate variopinte, ritratti di calciatori e candidati alle elezioni e scritte che regalano risposte esistenziali (due tra le tante: lavie se pas fasil e se comsa).E a proposito di candidati, Haiti è campagna elettorale e strade lastricate da volantini colorati dei candidati, è clima elettorale e post elettorale.
Haiti è blokis: traffico che letteralmente blocca tutta la circolazione e per fare un tragitto di venti minuti ce ne metti il triplo.
Haiti è caldo, sì, anche se ora siamo in “inverno” e la notte si dorme volentieri con il lenzuolino.
È il cloro per disinfettare piatti,stoviglie,tavoli, frutta, verdura,…
È banan pesè, riso e fagioli,pollo ma anche una specie di cassola che ricorda i sapori della Brianza.

Haiti è Kay Chal e ha acquisito piano piano anche la fisionomia di bambini e giovani.


Ora Haiti è anche A., bambina restavek che viene a scuola la mattina, sempre sorridente, si butta a turno nelle nostre braccia e per alcuni secondi resta stretta stretta a noi; è O., che ha spesso gran gou cioè tanta fame; è W. e D., due tra i tanti bambini che frequentano il doposcuola pomeridiano.
Haiti è anche il volto dei fratelli C., gentilissimi, sempre con un sorriso spiazzante e molto intelligenti: che opportunità per il futuro offre loro questo Paese?. È R. che prepara i fogli e i pastelli per il laboratorio del venerdì pomeriggio, è N. che da vero haitiano non parla quasi mai ma appena c’è della buona musica si lancia in balli sfrenati (ottimo arrampicatore di palme da cocco, ci ha permesso di gustare il latte di cocchi appena raccolti).
Haiti è…è…è…

Per fortuna sono partita con la “valigia” leggera.