Siamo a Mombasa, è il 10
novembre. Ci alziamo all'alba per partire in direzione Kilifi. Ci
hanno informato che la regione è in preda a una grande siccità, si
dice che sia la peggiore degli ultimi trent'anni e che questo fenomeno si stia verficando sempre più spesso. Alle sette del
mattino il sole è già caldo, i finestrini dell'auto aperti sono
d'obbligo e la polvere non tarda ad attaccarsi alla pelle, ai
vestiti, alla gola. Mano a mano che ci allontaniamo dalla costa
Keniana il paesaggio cambia drasticamente, il verde brillante lascia
spazio al rosso della terra e infine al bianco della vegetazione
secca. Dobbiamo fermare la macchina per far passare un pastore con le
sue mucche. Gli animali si trascinano stanchi, magri, assetati.
L'agronoma che segue alcuni beneficiari dei progetti agricoli di
Caritas ci accompagna a vedere la situazione. Incontriamo il primo
ragazzo che ci porta a vedere il suo orto. Non l'ha fatto vicino a
casa perché non sarebbe nato nulla. Ha provato a seminare al fianco
di una delle ultime pozze d'acqua che ancora resistono a questa
siccità. Le stagioni della pioggia di solito sono due: una a
maggio/aprile e una a ottobre/novembre. A maggio 2016 le piogge sono
state scarse e dopo di esse nessuno ha più sentito il dolce suono
della pioggia. Mentre l'uomo ci mostra le sue poche piantine
raggrinzite arrivano un gruppo di ragazze a prelevare un po' d'acqua
melmosa dallo stagno.
L'erba sotto i nostri piedi si sbriciola, la terra sembra sabbia. Mentre ci lasciamo abbattere da questo triste spettacolo arriva un'anziano che, con la schiena piegata dagli anni passati ad accudire la terra, ci saluta e ci dice: God is angry.
Come vorrei poter parlare
la sua lingua per spiegargli che tutto questo disastro non è una
punizione divina ma è il frutto del menefreghismo di qualcuno che ha deciso di
distruggere il pianeta e il suo fragile ecosistema solo per i propri
egoismi, come se il futuro del mondo non lo riguardasse. Ce ne
andiamo ma l'umore non migliora. Parlando con la gente scopriamo che
l'unico commercio possibile è quello della legna, del carbone e
della sabbia. Non c'è nient'altro da barattare!
E così alle
prossime piogge non ci sarà più nulla da irrigare, non ci saranno
più piante a trattenere l'acqua. Incontriamo una donna vedova con i
suoi numerosi figli, anche lei per ora fa del carbone con gli alberi
tagliati dal suo terreno. Le chiediamo cosa farà quando non ci sarà
più legna da tagliare? Ci risponde che andrà a prendere l'acqua per
chi non riesce ad andarci da solo; sono quattro ore di cammino tra
andata e ritorno dal fiume più vicino. Ci saluta con un bel sorriso
e tanto calore. Ci spostiamo per andare a visitare l'ultima zona.
Lungo la strada vediamo dei bidoni per l'acqua vuoti in fila ad
attendere l'arrivo delle cisterne, stanno in fila loro per i loro
proprietari perché potrebbe trattarsi di ore di attesa se non di
giorni. Non molti camion vanno ancora in quelle zone perché non
avrebbero nulla da portare via: sarebbe un viaggio a vuoto. I laghi
sono secchi, i fiumi anche. All'arrivo della nostra macchina tutti
escono di corsa dalle case per vedere se sono arrivati dei
rifornimenti. Scusateci, siamo solo noi. Solo i bambini mantengono
l'entusiasmo, non capita tutti i giorni di vedere sei bianchi.
Abbiamo trovato un
pianeta stanco, malato, sofferente, proprio dove la gente non l'ha
mai sfruttato ne inquinato... ingiusto! E' dovere di tutti proteggere
la madre terra, curarla, lottare per lei... ha bisogno del nostro
amore. Devo iniziare a fare la mia parte!
Giulia
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