“Quand'è che posso venir lì a Villa per una chiacchierata?”.
“Non venir qua a chiacchierare: o parliamo o stai a casa”.
Credo che Filippo sia stato il 1° cui rivelavo, il 24 maggio 2007, l’ipotesi servizio civile all’estero e i relativi dubbi; mi spedì a camminare. È stato il 1° che avevo intervistato per la tesi: aveva aperto la porta di casa di Villapizzone, cercato d capire cosa volessi e ha parlato per un paio d’ore. Non avevo il registratore, così tirai giù note disordinate ma poi a casa non riuscivo a decifrare quello che avevo scritto, rapito. Quindi trascrissi un po’ a memoria e lui si prese la briga di correggere il tutto. Un po’ d’Africa e molto di Villa, comunità e servizio. C’entra col nostro anno. E poi lui; vorrei farlo parlare anche qua, senza aggiungere altro a ciò che era finito nella tesi. Solo una cosa: Filippo è morto mercoledì, in montagna.
INTERVISTA A FILIPPO CLERICI S.J.
È il 30 ottobre 2006, quando lego la mia bicicletta nel cortile di Villapizzone ed inizio a riflettere su come dove avrei potuto incontrare Padre Filippo Clerici, con il quale avevo preso un appuntamento non meglio precisato alle 9 di buon mattino.
Scambio saluti con alcune donne passanti, ma non chiedo loro aiuto. Colgo in me alcune inibizioni: se da una parte sono restio a farmi riconoscere come “il ragazzo che svolge una tesi sulla comunità” per l’inevitabile patina di “colui che sta analizzando il vostro strano modo di vivere”, d’altro canto mi sento quasi invasore di quella che è un’intimità comunitaria; differente da quella di una comunità familiare, ma pur sempre percepibile.
Vago discretamente (per quanto si possa vagare discretamente) nel cortile interno e poi entro nell’edificio dove so esservi l’appartamento dei Gesuiti, salgo le scale e sto per bussare, quando da sotto sento provenire il timbro di voce di Filippo. Allora torno al piano terra e lo attendo, seduto ad un tavolo, prevedendo che presto o tardi uscirà da quella stanza dove sta parlando.
E difatti dieci minuti più tardi si sporge dalla porta, mi vede e mi tira dentro, dandomi in pasto agli occhi di una quindicina di ragazzi di quarta superiore, invitandomi ad intrattenerli con la mia tesi. Verso le 9 e 20, mi accoglie in camera sua, una piccola stanza confortevole ed ordinata, dove avrà luogo un’intervista imprevista e molto interessante.
Filippo mi chiede del mio lavoro e del mio percorso e poi inizia a parlare di quello che è Villapizzone per lui; inizia il racconto stando alla scrivania, cerca lo statuto della comunità. Io butto giù qualche illeggibile nota su alcuni fogli che mi ha procurato.
Se l’esordio della sua narrazione fosse stata una risposta, la mia domanda relativa sarebbe stata: “E come è nato tutto?”
Filippo Clerici s.j.: "La preistoria… La preistoria è l’esperienza di Bruno e di Enrica. Tutto è nato, in un certo senso, da Bruno. Lui ed io siamo legati da un’amicizia che risale… al 1948. Abbiamo studiato alle medie insieme. Vedevo spiccare in lui una certa inventiva, una certa determinazione. Aveva una forte idealità! Si è sposato e, manifestando questa idealità, ne parlava con la moglie. E la moglie assecondava, chiedendo semplicemente che si realizzasse assieme quanto si veniva progettando.
Sono stati in Africa, 7 o 8 anni, come missionari laici (allora si diceva così!). Difatti all’inizio erano intenzionati a fermarsi per due anni, poi hanno prolungato la permanenza perché sembrava loro di continuare una luna di miele. Enrica insegnava un po’ di economia domestica, lui era geometra. Avevano 4 figli loro e una bimba adottiva. Per ragioni scolastiche – i figli avrebbero dovuto incominciare la scuola, o in Africa o in Italia – alla fine sono rientrati. Ma, in effetti, non sono rientrati per nulla. Per tante cose l’Africa li aveva cambiati: un esempio è che Bruno non portava e non porta più l’orologio. Un esempio per dire che in realtà in loro era cambiato il modo di vivere e di vedere le cose. Soprattutto avevano gustato un altro modo di tessere le relazioni personali.
Sono rientrati al paese di origine, Mandello, ma ben presto sono giunti a Milano per vivere nella Comunità dell’organizzazione con la quale erano partiti per l’Africa, “Cooperazione Internazionale”.
Diciamo a questo punto di noi, Gesuiti. Nel ’77 eravamo in cinque e vivevamo in un appartamento a Milano, in via Leoncavallo 10.
Avevamo letto e meditato profondamente il vangelo di Marco. E questa esperienza ci ha modificato senz’altro la vita! Per cui abbiamo rizzato le antenne il giorno in cui Bruno ci comunica: “Mi hanno offerto Villapizzone. Da solo, con la nostra combriccola, mi sembra un po’ impegnativo, però con voi…”.
È stata una sorta di convergenza parallela (come si usava dire allora).
Sono arrivati nel frattempo i Nicolai, la famiglia di Danila e Massimo. I quali avevano alle spalle un’esperienza analoga ai Volpi, loro in Ciad. Questo fatto non è secondario, dico il fatto dell’esperienza, in un paese emergente! Per cui (senza che fosse un requisito!) era certo un vantaggio che le famiglie che venivano avessero un’esperienza di vita all’estero, così da essere svezzate rispetto allo stile abituale! Una sorta di noviziato per uno stile nuovo.
La famiglia ha una sua mobilità relativa, i figli li inserisci in una comunità che è piuttosto stabile (mi piace dire comunità, meno ad esempio condominio solidale).
Non è quindi un kibbutz! È molto diverso…
Bruno ed Enrica poi si sono trasferiti, dopo che i figli sono cresciuti per dare vita ad altre comunità di famiglie. Bruno deve muoversi! Ha il carisma della creatività, deve promuovere altre iniziative. In questo si è sempre estremamente impegnato a dar vita a nuove comunità. È sempre impegnato".
Paolo: "Pensavo di incontrare Bruno verso la fine dei lavori..."
F: "Ma no, lasciamolo quieto. Ritengo sia sufficiente quanto emerge da una semplice chiacchierata come questa. Lasciamolo dunque... respirare.
I Nicolai sono ancora a Villapizzone. L’ultima famiglia con figli è ancora qui. Perché ciò che conta, che dà… così, un po’ di sapore alla vita, sono le relazioni personali... ed una certa libertà dal denaro. La cassa comune vede convergere tutti gli stipendi da cui ogni famiglia poi attinge. L’assegno in bianco tiene conto delle proprie necessità, ma va un poco più in là di esse. È un segno di fiducia. E i figli se la caveranno. Noi si investe nelle relazioni, li si fa studiare e poi: ”liberi”!
Io vedo un progresso di umanità, in crescita, quando si tollera, senza eccessiva fatica, quando la propensione verso l’altro o la necessità dell’altro non sono vissute come una minaccia, ma come una ricchezza.
Quando sto via un po’ di tempo, rientrando, vedo le dinamiche tra le coppie, e noto che la capacità di accoglienza, di accettazione, è aumentata. Ci tengo a dire che non è sentimentalismo, stai attento, ma è “amare l’altro per quello che è! Così come è”.
È importante… Si potrebbe forse dire che c’è qualche cosa di più importante?! Secondo me, no! Quello che conta è lo stare insieme; che fa crescere è lo stare assieme.
Come valore che gratifica noi, che fa crescere il gruppo, e anche -perché no?!- in termini di servizio sociale. Sì, in termini di servizio sociale, si può [NdP:calca queste due parole: “si può”] stare insieme. Certo, non è fatale che ci si debba blindare, dietro la porta: sarebbe una ”illegittima difesa”!
Quello che sei è la realizzazione del sogno che tu hai coltivato, ma prima ancora è il sogno che Dio stesso coltiva! Il bene raccoglie, il male divide. Perché ci si contrappone, ci si divide. E il sogno allora, la radice del sogno (che non è un mettersi insieme fusionale, irrispettoso dell’altro), si perde".
P: "Questa è una domanda che faccio per puro dovere di tesi: se dovessi paragonare o confrontare la vostra realtà ad un’altra, magari lontana storicamente o geograficamente, anche solo per evidenziare le differenze da essa, come prima nominavi il kibbutz, quali sarebbero gli oggetti di questi paragoni?"
F: "Mah! È difficile.. Dall’esterno si possono fare dei paragoni, ma dall’interno siamo molto naif! Più che parlare di discernimento, potremmo affermare che a chi è interessato diciamo: “Provate, poi vedremo”.
Credo sia il contrario dello scegliere con oculatezza. Sulla base del volontariato… è sempre un buttarci. Ecco, forse l’esperienza dell’Arca di Jean Vanier è stata di fatto l’esperienza di qualcuno di noi nei primi tempi! Forse Bruno e Enrica stessi l’hanno visto, ma non saprei dire se c’è stata un’effettiva influenza di quella iniziativa. Credo che la prima realizzazione di “Comunità e Famiglia” sia tipica degli anni ’70, magari debitrice dell’atmosfera culturale di quegli anni.
I Gesuiti pure, in tale contesto, si sono esposti realizzando delle comunità; in modi diversi, con intonazioni differenti, ricordo molto bene! Ma troppo frequentemente fallivano.
La cappella di Villapizzone oggi è un ampio salone al piano terra. L’hai vista. Prima era una piccola cappella situata nel nostro appartamento: era significativo che la gente entrasse a casa nostra, si sentisse in qualche modo ospite… Quel salone lì sa un po’ di anonimato; non è che mi faccia molta devozione.
Oggi nelle comunità si uniscono tipi diversi di famiglie o di raggruppamenti di singoli. All’inizio – direi - c’erano solamente delle famiglie e un “angolo” per giovani, una specie di piccola “comune”, che però abbastanza presto si è rivelata fragile, direi velleitaria!
Di fatto poi si è sciolta. C’era “voglia di comunità”, ma s’è visto che non bastava avere… voglia di comunità.
Il discorso della presenza di singoli, che provano a stare insieme, per vincere la incertezza e la sofferenza della solitudine, di chi non è sposato, ma non vuole vivere da solo… è un discorso delicato.
In quei tempi (sto parlando degli anni’90) il singolo viveva come ospite in una famiglia, una sorta di fratello maggiore o di “zio”.
Quando ci si domandasse – ed è domanda legittima - “ma che tipo di servizio rendete?” o, ancora in termini alquanto imbarazzanti, “quante persone accogliete?”, eccetera… A mio parere si può dire che già lo stare assieme così, è un forte segnale “che si può” vivere in un modo alternativo rispetto allo scontato, così difficoltoso e frustrante! E questo a mio parere è già un grosso servizio. Sì, questo “essere” insieme prima ancora del “fare”!"
P: "Il numero di coppie interessate a quest’esperienza è costante o incontra dei cambiamenti?"
F: "Beh, i dati precisi non li conosco, so però che è un numero crescente. Perché la conoscenza di queste esperienze si è allargata. Ci si è organizzati con dei gruppi cosiddetti “di condivisione”. Ci s’incontra, si parla di sé, si affrontano determinati discorsi e può essere che nasca una convergenza di stile! A quel punto si elabora un progetto e se eventualmente ci s’imbatte in un caseggiato, o anche in una cascina, ci si costituisce in “gruppi di lavoro”e si realizza un nuovo insediamento. Quindi è chiaro che non c’è una definizione rigida o un modo di procedere unico. Ogni comunità ha una storia a sé".
P: "Nel corso degli anni avrete cambiato alcune caratteristiche della comunità. Quali sono i cambiamenti che ritieni più significativi?"
F: "Si può dire che è cambiato innanzitutto il contesto in cui è maturata l’esperienza. Di conseguenza si comprende che, dal punto di vista culturale e globale, la comunità inizialmente era un’esperienza del post ’68, ecclesialmente del post-concilio e quindi, lo stare insieme, era segnato da questo stile un po’ naif. Difficilmente definibile.
Da un punto di vista organizzativo -come dire?- sociale o amministrativo, mi ricordo che con Bruno, c’eravamo provati a spiegare la nostra realtà presso uffici competenti per avere qualcosa che assomigliasse ad una licenza, un permesso per il nostro lavoro di piccoli traslochi e sgomberi… Ciò che si è ottenuto, ricordo, è stata una specie di licenza di… “rigattieri”. Non eravamo per nulla inquadrabili in schemi… ragionevoli.
Ma in seguito si sono fatti naturalmente dei passi non piccoli. Tant’è che adesso si è iscritti all’albo del Volontariato e s’è costituita una Cooperativa (nome significativo: ”Di mano in mano”).
Sì, di fatto, sulla base dell’esperienza, ci sono stati dei cambiamenti, vuoi per le famiglie, vuoi per il clima culturale, come s’è detto.
Cinque su sei famiglie di Villapizzone (come riferito sopra) hanno esperienza di volontariato internazionale! E ciò crea una rottura con lo stile abituale “piccolo borghese” e avvia invece uno stile di condivisione, di essenzialità, di apertura.
Nella evoluzione della coppia che vuole far parte di un comunità darei per necessario, più che facoltativo, un periodo di “noviziato”, direi di svezzamento, rispetto allo stile, ai parametri precedenti".
P: "Quali sono le caratteristiche che la vostra vocazione vive rispetto ai sacerdoti diocesani? E che rapporti avete con la Chiesa?"
F: "Noi siamo religiosi, Gesuiti.
Vivendo a Villapizzone non ci consideriamo liberi battitori. Anche se è vero che non ci riteniamo incasellati, quasi strizzati, in un ruolo quale può essere considerato - con tutto il rispetto! - quello di un sacerdote diocesano ad esempio.
Un prete in parrocchia è piuttosto impegnato e legato a precisi compiti e chiamato a svolgere un servizio religioso e amministrativo. Cerca anche, il prete, di annunciare ad esempio lo “stare insieme” che è quello della comunità parrocchiale, di fatto trovandosi a vivere da solo! Sì, vive da solo, e poi la domenica parlerà – certo, dovrà parlare - di comunità parrocchiale.
A noi, come religiosi e segnatamente per il fatto di essere a Villapizzone è dato di vivere in modo robusto la dimensione comunitaria. Siamo in cinque e condividiamo la casa, ci gestiamo la casa, preghiamo assieme, lavoriamo assieme, studiamo assieme la Scrittura, assieme annunciamo il Vangelo attraverso la Lectio.
Ci siamo necessariamente dovuti togliere (fisicamente intendo!) dalle case piuttosto “blindate” in cui si viveva. Per aprirci ad un contatto meno difeso rispetto alla realtà più quotidiana. Ci ha molto aiutato il vivere fianco a fianco con le famiglie!
Ci è parso che si realizzasse un tratto importante di quella logica che è l’"incarnazione”…
Certo, tra i Gesuiti, confratelli, all’inizio si percepiva qualche diffidenza, alla base soprattutto! Ma sentivamo il consenso e la fiducia da parte dei vertici, dei Superiori. Poi c’è stato un consenso anche dalla base, finendo per godere quasi un eccesso di stima. Tant’è che si riconosce che diversi ragazzi hanno trovato motivo di riflessione e stimolo a porsi una domanda vocazionale, a partire dalla frequentazione della comunità. Per cui una ventina di essi sono poi entrati nel Noviziato dei Gesuiti.
Di fatto per ragioni diverse transitano molte persone da noi, giovani, adulti, vecchi, dal quartiere, oltre che dalla città o dintorni. Molta gente… Così che, ad esempio le mamme dei compagni di scuola sanno che possono dialogare con le sagge mamme di Villapizzone o addirittura “appoggiare” i bambini per evenienze varie.
Abbiamo disponibilità di forze, di tempo e di spazio, cose tutte che mettiamo a disposizione delle persone per incontri e accoglienza. E’ qualcosa di più che un centro di ascolto o un centro per socializzare…"
P: "Come si relaziona la comunità al quartiere?"
F: "Di conseguenza a quanto detto sopra la relazione con il quartiere… La cooperativa “Di mano in mano” comprende anche persone del quartiere, con disagi fisici o psichici. Degli anziani usano il salone per una ginnastica riabilitativa o similare. Nel salone, ancora, trovano spazio gruppi diversi per incontri di vari motivi, sociali, familiari, formativi: Sempre nel salone noi Gesuiti teniamo le letture bibliche, evidentemente aperte anche alla partecipazione di quanti vogliono del quartiere.
Spessissimo Villapizzone è invasa da quanti festeggiano i compleanni di bambini o si trovano per un’agape fraterna, familiare...
All’inizio Villapizzone era pressoché un rudere, occupata, semidistrutta. C’era una parvenza di un sedicente centro sociale (si chiamava “Linea 12” dal tram che passa in via Console Marcello, a fianco). Più che un centro sociale si può dire che ci fosse una certa… dissociazione sociale.
Due Gesuiti sono arrivati con una macchina, con due materassi e due sacchi a pelo. Non c’erano le finestre, mancavano le porte. C’era… molta aria. Il primo acquisto: settanta porte! Me lo ricordo.
I ragazzi che occupavano la casa poco alla volta hanno lasciato libero il campo. Hanno capito, senz’altro! E, credo, hanno anche apprezzato!
Già, le porte, settanta! Servono per ripararci dal freddo, dalle intemperie… ma soprattutto perché si spalanchino e accolgano!
Beh, è l’ora del caffè, andiamo. È un piccolo rito per stare un po’ tra di noi, ma oggi ci sarà anche quella classe di ragazzi che è venuta farci visita!"
Scendo e partecipo al momento d’incontro, due thermos dispensano caffè e tè bollenti, c’è anche una torta. Scambio parole con qualcuno che conoscevo, ma più che altro partecipo silenzioso, a mio agio. Filippo, mi scorta a fare un giro nelle case, mi racconta piccole storie di persone passate o passanti da Villapizzone, mi mostra un edificio vicino che stanno allestendo per i gruppi scout o vari che vengono a fare momenti di ritiro o aggregazione. C’è stato anche un incendio accidentale anni fa e proprio in questi tempi stanno concludendo i lavori di ricostruzione. Il postino teme il cagnone e non osa addentrarsi nel cortile a lasciare la posta.
Saluto Filippo, è stato molto disponibile, mi ha regalato perfino un libro, “La nuova Bibbia Salani”, la Bibbia raccontata. Slego la bicicletta, esco da Villapizzone pedalando sulla ghiaia, ora toccherà a me raccontare.
"La vita è come scalare una montagna. Se so che sulla cima mi attende una festa preparata per me, potrò vivere la fatica dell'ascesa con gioia e speranza" Filippo Clericinsieriparole.it/aforismi/vita/frase-54510> |
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