sabato 30 luglio 2016

MOLDOVA: il viaggiatore moderno

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     Ci sono momenti della vita in cui anche le cose studiate all'università sembrano applicarsi alla vita reale. Qualche tempo fa, durante una lezione di portoghese, ho ascoltato il mio professore pontificare di viaggi e viaggiatori
     Per non tirarla per le lunghe -tanto l'esame io l'ho passato e a voi non penso che interessi così tanto la lezioncina- posso dirvi che esiste una grande differenza fra il viaggiatore del passato e il viaggiatore moderno: il primo, viaggia per confermare ciò che conosce e, pur scoprendo il nuovo, cerca di riportarlo sempre al vecchio, al conosciuto e a ciò che sa già. Il viaggiatore moderno, invece, scopre il nuovo e non ha aspettative, o meglio, si aspetta di scoprire.

In partenza per Chisinau, dopo aver rischiato di perdere un passaporto...
     
     Ecco, siamo atterrate a Chisinau, ed è questo che ci è successo!

Francesco, da vero Alberto Angela degli anni Novanta, mostra sulla cartina Ucrainca

     In tanti ieri ci hanno chiesto la tua prima impressione qual è, e noi non sapevamo bene cosa dire. In fondo questa città non è simile a niente di ciò che già conosciamo. Qualcuno si è detto qui non c'è niente...altri non avevano capito che eravamo arrivati in capitale. 
     Ci mettiamo in viaggio verso casa degli SCE chi sul pulmino chi su un taxi. Quello che non cambia è che tutti hanno una guida "sportiva". Incredibile come Francesco non se ne stupisca più.       
      Riporto una conversazione: 
-Francesco, ma questo guida come un pazzo! -dice Anna, allontanando un cuscino appoggiato sul sedile del taxi, che ci sorride all'arrivo con addosso polvere che risale all'URSS.
-Ma no! Questo tassista guida bene! 
     Ci si scambia uno sguardo di panico. Ma siamo sopravvissute.

     Intorno a noi palazzi ultramoderni e centri commerciali esageratamente luminosi -un po' kitsch, oserebbe dire qualcuno- affiancati a cumuli di macerie, edifici abbandonati e fatiscenti. E' come se due epoche fossero costrette a convivere insieme, dando vita ad un mondo contraddittorio: l'URSS, da un lato, fatto di Lada e block imponenti e austeri; dall'altro, l'Occidente del McDonald's e di KFC. Avrei voluto scattare una foto, ma sono venute tutte mosse...chissà perché! 
     Ma nella nostra testa le immagini sono molto vivide.

Questa è la capitale.

Oggi ci spostiamo nei villaggi, e "se avete la pazienza di seguirmi" man mano scoprirete insieme a noi le bellezze della Moldova.

Silvia, Silvia, Anna, Martina e Irene

venerdì 29 luglio 2016

Marocco : CdS - Solidarietà geometrica

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Carissimi tutti,

Dopo aver ricevuto un numero imbarazzante di inviti a scrivere su questo blog, mi sono deciso a condividere l'unica scoperta che sono riuscito a concepire nell’estremamente tedioso (e lungo) viaggio dalla moderna Casablanca cosmopolita alla sperduta Midelt berbera. Da Bu.Co. (Buon Coordinatore) e come tanti altri viventi, mi domandavo quale fosse il senso del mio essere (e nello specifico del mio essere su di un Bus. In Marocco. A luglio).

Un laconico “Cantieri della Solidarietà” ha risolto ogni dubbio. O forse no. Fino alla voce “cantiere” ci arrivo, il pragmatismo Valbronese ha aiutato; su “solidarietà”, ho vacillato. Ho passato dunque una buona parte del viaggio (mezza giornata) chiedendomi l’etimologia di solidarietà, giusto per partire dalle basi e per perseverare in un mio interesse patologico. Mi sono risposto che qualcosa con “solido” (latino“solidus”) doveva centrare. L’amato blog “unaparolaalgiorno.it”, che cito, ha fornito la risposta :

Per chi si domandasse se ci può essere un legame fra geometria e sentimenti umani, voilà. La solidarietà è il sostegno reciproco, al modo in cui ogni parte di un solido è retta e tenuta salda da tutte le altre: nessuna si ritrova sola nel vuoto. La solidarietà è quindi la compattezza del corpo sociale, il suo essere massiccio - e ci spiega che la forza di un corpo sta nella sua coesione. Coesione che si esprime innanzitutto nella mutua assistenza, in una fratellanza che scaturisce dalla coscienza di far parte di un uno. Quando non ci curiamo di qualcuno che sta male o è in difficoltà - capita -, ecco che nel solido si apre una crepa: una sola, una crepa da nulla. Ma di crepa in crepa il corpo si indebolisce, le fenditure si allargano fino a renderlo fragilissimo, incoerente - che perde pezzi, fra i quali ci siamo anche noi.

“Molto islamico”, è stata la prima cosa che ho pensato, e non per il contesto attuale o deformazione professionale. La caritas è senza dubbio cristiana. La solidarietà, almeno in questa accezione, è deliziosamente musulmana. Giustezza di un solido. Giustizia. Compattezza sociale. Coesione. Fratellanza. Far parte di un Uno (tawḥīd).


Perciò, da Bu.Co. Marocco, paese islamico al 99% (l’1% lo scopriremo inshallah nei prossimi giorni) non potevo che esserne contento. So cosa ci faccio qui, so cosa ci faranno qui i Bu.Ca. (Buoni Cantieristi), che mi raggiungeranno tra due giorni e, complice il passeggiare nel Mausoleo Mohammad V di Rabat, ho finalmente trovato un senso all’immagine di copertina del nostro “Sussidio Marocco”, lì scattata. La riporto sotto, dedicandola ovviamente ai carissimi Bu.Ca. Marocco e augurando loro di entrare in questo paese così, tra figure geometriche e sentimenti umani. 


De la géométrie de l’art islamique se dégage une vision du monde déterminée par l’idée d’ordre, d’équilibre, de rigueur et de mesure. Elle correspond tout à fait à la notion musulmane, aussi bien théologique que mystique, d’un univers entièrement conçu et organisé par l’Intelligence divine. L’Islam […] recommande la solidarité fraternelle et le souvenir de Dieu, il interdit ou réprouve le matérialisme et l’individualisme excessif. (L'esprit de géométrie dans l'art islamique – Patrick Ringgenberg).

R

giovedì 28 luglio 2016

Bolivia: i polli di Bill Gates e una distanza da percorrere

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“E’ davvero un gesto maleducato”. 
Con queste parole  César Cocarico, ministro boliviano della terra e dello sviluppo rurale ha rifiutato il ‘regalo’ prodigalmente offerto al suo Paese dal grande miliardario americano Bill Gates
La notizia è stata riportata dal Financial Times, ripresa da diversi quotidiani di tutto il mondo e giunta anche sotto i miei occhi. Lo scorso mese di giugno il fondatore della Microsoft ha annunciato di voler distribuire, per mezzo di un’organizzazione umanitaria, un totale di 100mila galline in dono ai Paesi più poveri del mondo e nella lista dei beneficiari, accanto a diverse nazioni dell’Africa subsahariana, compare anche la Bolivia.  “E’ chiaro che chiunque stia vivendo in condizioni di estrema povertà migliorerebbe la propria situazione se avesse dei polli da allevare. Se io fossi nei loro panni è questo quello che farei, alleverei dei polli”, scriveva il ricco filantropo sul suo blog, con tutte le migliori intenzioni, ma con un effetto piuttosto straniante.
“Pensa che viviamo ancora nella giungla, senza sapere come si produce”, è stata la reazione stizzita del membro del governo di Evo Morales. “Con tutto il rispetto, dovrebbe smetterla di parlare della Bolivia, informarsi, e una volta imparato qualcosa in più, scusarsi con noi. Non abbiamo bisogno dei suoi polli, abbiamo la nostra dignità”. 
Dietro questa risposta mi è sembrato di intravedere un pezzo di storia dell’America Latina.
La Bolivia, ricorda l’articolo, alleva 197 milioni di polli all’anno e ne esporta 36 milioni. Nell’ultimo decennio l’economia del Paese è cresciuta tre volte tanto, e secondo le stime nel 2016 crescerà del 3,8%, più di tutti gli altri paesi dell’area latino americana.

A poche ore dalla partenza per Cochabamba, la mia valigia è quasi completa ed è proprio questo episodio a tornarmi in mente.
“Se io fossi nei loro panni”-  “If I were in their shoes” - è la frase che mi rimbalza in testa. Un ragionamento per assurdo. Un ‘periodo ipotetico della irrealtà’, che esprime tutta la siderale distanza di chi, in quei panni, e in quelle scarpe, non ci entrerà mai.

Aspettando che venga il momento di  prendere l’aereo che mi porterà dall’altra parte dell’Oceano, mi dico che forse è anche dal “se fossi” e “se avessi”che sto provando a scappare, che è proprio questa la distanza che voglio provare a percorrere.

Non da turista, non da ‘filantropa’ e nemmeno da missionaria.

Non vedo l’ora di approdare in Bolivia, anzi di ‘sconfinare’, come dicono quelli di Caritas Ambrosiana. Ma non è mia intenzione portare doni poco graditi. Né, tantomeno, far ridere i polli…

Franci R.

mercoledì 27 luglio 2016

Karibuni - benvenuti a Mombasa

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Sono tre giorni ormai che è iniziata la nostra avventura qua a Mombasa, e le persone che abbiamo conosciuto non si contano più sulle dita delle mani. I volti sono diversi soprattutto per le loro età ma i sorrisi sono molto simili, magari qualcuno più sdentato di altri.
Il nostro cantiere si concentra in due posti completamente differenti il Mahali Pa Usalama,un centro per bambini vittime di abusi, e il Nyumba Ya Wasee, una casa di riposo per anziani. Dalla prima siamo usciti stremati, d'altronde i bambini sono pieni di energia e la loro vivacità è contagiosa, solo che quando si superano i 20 anni non si riesce più a stare al passo. Nel secondo, invece, è bello aiutare in quelle che sono le attività quotidiane delle persone che nel centro anziani ci lavorano tutti i giorni, come cucinare, stirare le camicie e anche ascoltare i loro interminabili aneddoti. Sono tante le risate che ci facciamo, sia quelle nei due centri, sia quelle dovute alle perle di saggezza che ci scambiamo tra di noi, ad esempio:

  • io amo mangiare le cose marce
  • preferirei fare il patologo perché le persone vive mi fanno schifo
  • ho scoperto che mia mamma mi ha iscritto ai boy scout perché ero un disadattato
e anche il fantastico calendario di viaggio di nozze sul cammello per cui abbiamo posato io ed Elena.
Non vediamo l'ora di scoprire cosa ci aspetterà, a mille di questi giorni.



Giovanni



domenica 24 luglio 2016

Kenya: vado lontano due spanne e mezzo!

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Come al solito mi ritrovo all’ultimo a fare le cose.
Prima di una partenza, prendo (e perdo) sempre troppo tempo in occupazioni più o meno importanti: un calcetto, una serie tv, un libro, il lavoro o il solo dormire.
Per le ultime ore lascio i momenti più importanti: salutare gli amici, preparare la valigia (quanta fatica ogni volta! ), ascoltare le ultime raccomandazioni in famiglia e mettere giù due pensieri.

Dove vai in vacanza quest’anno?
Questa è la domanda più gettonata degli ultimi mesi.
In Kenya, rispondi. A fare volontariato.
Lo dici un po’ a bassa voce, come per tenerlo per te, e un po’ con il cuore pieno di orgoglio, forse troppo. Troppo, perché inevitabilmente non è una scelta di tutti i giorni.
Sai che la tua risposta sorprenderà comunque l’altro e a volte pensi di passare per quello snob, per quello che “io faccio solo cose di questo tipo, io sì che sono un uomo di mondo”, anche se sai bene che non è così.
Sai anche che mentre lo dici, stai pensando a tutto fuorché immaginarti su quell’aereo che ti porterà dritto a Mombasa.

Arrivano gli esami, la sessione estiva sembra non finire più. Passi nottate sui libri con i compagni di università e dai tutti gli esami per concederti poi il meritato riposo. Riposo? Sì, riposo. Ma dove?
- “Dov’è che vai che non mi ricordo bene?”
- “Kenya” dici automaticamente.
- “Kenya!?”
- “Sì, Kenya.”
- “Sì ok, ma dov’è il Kenya?”. Quest’ultima domanda me l’ha fatta mia nonna.
- “Eh nonna, si trova in Africa, a livello dell’equatore”.
Prendo una cartina e indico il luogo.
- “Guarda nonna, Milano-Mantova, dove è nata, è tanto così, - nemmeno mezzo centimetro sulla cartina – Mombasa si trova qui, a due spanne e mezzo di mano dall’Italia.”
- “Sì, però se vai a Mantova ti ci perdi di sicuro” la sua risposta.
Ora sono io quello che rimane spiazzato. E mi cresce sul viso una risata.

Una volta finiti gli esami inizi subito a lavorare, per stare tranquillo durante il prossimo anno universitario. Inizi a riassaporare la spensieratezza e la libertà dagli studi: esci la sera, vedi vecchi amici che come te hanno condiviso le loro nottate con i rispettivi libri e compagni, hai tempo per guardare un film o leggere un libro Sei più sereno, qualche settimana di lavoro e poi parti. E di nuovo fai fatica a ricordarti la destinazione. Detta così però sembra che questo viaggio valga poco per te.
Bisogna specificare meglio.
Non è che non vale nulla il viaggio, anzi….è solo che, come qualche mese prima, non riesci ancora a pensare di essere su quell’aereo. Non è mancanza di volontà o pochezza di spirito, è che non ce la fai proprio. È una cosa troppo grande.

Poi arrivano le notizie.
Nizza, Turchia, Monaco.
E proprio in quel momento, quando ti arrivano queste informazioni, inizi a comprendere cosa significa partire per il Kenya. Riesci finalmente a fare luce sulle motivazioni che ti spingono così lontano da quella che è la tua casa.
Come è stato scritto da altri ragazzi cantieristi, il primo pensiero è stato “stai a vedere che ora non parto più”. Subito dopo viene la rabbia. Per quello che è successo, per le vittime, per la finta solidarietà del giorno dopo, per il tuo viaggio che rischia di non iniziare mai.
Tra i tanti articoli che si leggono dopo queste tragedie te ne capita uno in particolare che attira la tua attenzione. La giornalista attacca duramente le reazioni del giorno dopo, sostiene che la maggiore parte delle persone scandalizzate o solidali del giorno seguente a eventi di questo tipo “sono quelle che fino al giorno prima non hanno mosso un dito per rendere il mondo un posto migliore, ma che delegano agli altri questo compito e quando si perde…è sempre colpa degli altri, dall’arbitro della partita di calcio al capo del lavoro”.
In particolare mi colpisce una frase: “Noi non facciamo mai una fatica. Per cambiare il mondo si deve fare fatica. E non si deve andare da nessuna parte. Si deve fare fatica in casa, ogni giorno, nel nostro piccolo e dannatamente complicato universo”

Lì realizzi la meta del tuo viaggio.
“Sì, ok, l’hai già detto Lore, vai a Mombasa, in Kenya.” Stai anche stressando un po'!
Ora però non parli solo del luogo fisico, parli anche del motivo che ti spinge a compiere questo viaggio.
Imparare a fare fatica.
Imparare a fare fatica non nell’agio della quotidianità milanese, ma in Kenya, a Mombasa, in quella precisa parrocchia, con quelle precise persone, per tre settimane.
Per essere pronti un domani a fare fatica qui, in Italia, a Milano, ogni giorno.
Per imparare a fare prima le cose importanti, quelle vitali.
Solo dopo vengono le altre.

Ora scusate ma devo salutarvi, sto andando in aeroporto, ho un volo che mi aspetta.
Del resto ve lo avevo detto che faccio sempre le cose all’ultimo.


Lorenzo

venerdì 22 luglio 2016

Come abbiamo fatto a ridurci cosi?

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Accendi la TV e senti solo morti, stragi, odio che si moltiplica ad una forza allucinante, che contagia chiunque, in qualsiasi angolo del mondo.
Io rimango attonita davanti allo schermo, bloccata a fissare quelle immagini raccapriccianti di vite umane distrutte e l'unico pensiero che mi passa per la testa è "come abbiamo fatto a ridurci così?".

Come è possibile che proviamo odio per gente che nemmeno conosciamo?
Com'è possibile camminare per le strade della propria città e avere il terrore anche solo di entrare in un bar, di attraversare la strada, di prendere la metropolitana?
Com'è possibile che centinaia di persone debbano essere costretti a lasciare la propria casa e il proprio paese natale perché è in corso una guerra che nessuno ha approvato?

Il mondo ora è ossessionato dalla paura, si è lasciato travolgere da essa, come una malattia contagiosa.
La paura è terribile, ti riempie di pregiudizi, di cattiveria, la paura fomenta l'odio e passa silenziosa tra la gente, mietendo vittime.
Credo che la paura non ti lasci scampo, si inietta nella tua mente e distorce la realtà; quando si ha paura vediamo tutto buio, negativo, denso di terrore.

Tra 9 giorni parto per la Georgia con Caritas Ambrosiana, parto per combattere la paura di ciò che è diverso, estraneo a noi. Parto perché credo che non ci sia cosa migliore che la conoscenza di altri popoli per abbattere i muri insormontabili che la paura ci sta costruendo attorno.
Parto perché ho bisogno di amore, di contagiare attraverso la gioia qualcuno che non conosco, di costruire rapporti di pace, con popoli lontani e dalla diversa lingua e cultura.

Ho bisogno di sentire che non può esserci solo odio, morte e terrore; ho bisogno di riscoprire la pace, perché so che l'amore vince su tutto.
Perché so che l'unica cura alla paura è l'amore.

E se ci siamo ridotti così è per mancanza di amore, soprattutto verso gli altri.


Jessica

martedì 19 luglio 2016

E' tutto un equilibrio sopra al..volemose bene!

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Carissimi, dato che mi piace partire sempre da fatti realmente accaduti neanche questa volta mi esimerò dal cominciare con questa modalità.. per un post bello lungo e po' pesante - ma d'altronde ho la pesantezza dentro.. e fuori! :)

Sabato scorso sono stata a trovare padre Angelo, un missionario della Consolata di 93 anni, che è quasi una leggenda qui a Mombasa. Si definisce più keniota che italiano considerando che è nel Paese da ben 53 anni!
Parla ancora perfettamente tre lingue (inglese, Kiswahili e italiano) e ha esordito dicendomi: "ma secondo te che lingua si parla nell’aldilà?! Sai, ci penso spesso all’aldilà, alla mia età, ma non mi affanno mica!”.
Amorevolmente dico che i missionari fanno parte di una categoria antropologica a parte.. e ne sono sempre più convinta! J

Abbiamo parlato un’oretta (ha parlato più lui a dire il vero) e poi mi ha portato in giro, con un certo orgoglio, per mostrarmi la nuova chiesa di Timbwani.. affabile, salutava e scherzava con tutti -“vedi, qui i bambini ti salutano.. mamma mia, sono stato in Italia per le vacanze l’anno scorso e ognuno va per la sua strada, nessuno ti saluta!”- camminava spedito.. un vecchietto arzillo e ancora lucido (che manda un sacco di email!!).

p. Angelo 

Nel discorso a ruota libera che abbiamo avuto, mi hanno colpito un paio di cose che padre Angelo ha detto e che vorrei condividere.
Insomma, uno da un missionario di 93 anni di cui più della metà spesi in Kenya (dove peraltro vuole finire la sua vita, come ogni missionario che si rispetti) si aspettava grandi discorsoni.
E invece mi ha messo davanti due "verità" all'apparenza banali, ma che invece.. più che altro si sono inserite in alcune riflessioni che mi porto dietro da un po’ e che partono da prima, fermentano in Africa con me e ritorneranno in Italia perché si possono applicare a tutti i luoghi della vita. 
Qualcuno potrà definirle un po' buoniste, altri provocatorie, molti potranno non condividerle ma sicuramente sono riflessioni sincere e personali.
  
1) “Ci vuole tanta pazienza.. bisogna volergli bene!”

Non c’è molto da aggiungere. Mi sembra abbastanza chiara come frase.. Ma non è un po' troppo semplicistica? .. eppure, quant’è difficile?! Quant’è difficile voler bene a chi ti trovi davanti solo per il suo essere umano alla pari di te?! c'avete mai provato? 
Non voglio sconfinare nel patetismo.. ma davanti a quelli che non riesco a capire, davanti a quelli che alcune volte proprio mi fanno girare le scatole, quando vedo limiti insuperabili e quando sentimenti negativi stanno per insinuarsi in me – perché lavorare con altri non è mai facile, figurarsi farlo in un contesto culturale totalmente diverso – il voler bene incondizionatamente è quello che mi ripeto spesso; e mi piacerebbe saperlo fare, perché forse è il metodo che salva la mia umanità e mi tiene con i piedi a terra.

Attenzione però!!! Voler bene per me non significa lasciar passare proprio tutto – questo potrebbe essere anche indifferenza o sintomo di una lusinghiera superiorità –  ma vuol dire cercare il confronto, dialogare sulle cose che secondo me sono sbagliate, o giuste, per cercare una ragione, almeno per provare a capire. E vuol dire anche correggere a volte, cosa che spesso fa male, da entrambe le parti, perché c'è il rischio di prendersi delle sberle clamorose e, poi perché chi è l’altro per potermi dire cosa devo o non devo fare?! Forse però, se l'accogliamo, questa sberla può anche farci crescere o quanto meno aiutarci nella riflessione, sempre in maniera biunivoca.

Insomma pazienza e bene richiedono un grande lavoro, ci si arriva per tentativi e fallimenti, tanti.. e credo sia un grande, lungo, mai finito esercizio umano!


E ci colleghiamo al secondo punto
  
2)“ è difficile, ma bisogna accettare le cose”

Le accettiamo nel senso che prendo l’accetta e rompo tutto?!? Ogni tanto capita di fare anche questi pensieri.. L’accettazione è una delle cose più difficili. Credo che ci voglia veramente un grande sforzo e una grande maturità umana. Anche qui, bisogna sempre fare i conti con se stessi. Frustrazione, rabbia, delusione. Quando penso di esserci, ci ricasco ogni volta. 
Ci sono obiettivamente delle cose che non dipendono da me ma che sono lì e posso solo accettare. Posso arrabbiarmi, posso strepitare, ma il dato oggettivo non cambia. E non l’ho deciso io. Allora veramente posso solo farmi mettere in discussione e lavorare su me stessa.

Quello che però mi chiedo è: qual è il limite tra l’accettazione reale e la rassegnazione?

Mi spiego. 

C’è sempre il forte rischio di partire con la presunzione di cambiare le cose: è la malattia del narcisismo e dell’autocompiacimento.
“Ma quanto sono bravi questi civilisti che vanno in giro per il mondo a salvare gente?!”
E' una delle frasi che mi fa venire abbastanza l’orticaria. Perché poi uno se ne convince.
E perché io sarei più brava, o moralmente superiore, di un commesso che fa il suo lavoro con passione e dedizione e in maniera egregia?!?! Chi li decide questi parametri?!
Spesso la realtà ci dice che torniamo a casa con la coda tra le gambe perché non è cambiato niente, ma anzi, prevale il senso d’inutilità ed è già tanto se almeno avvertiamo dentro qualche cambiamento.

Dato per scontato che riusciamo ad accettare la situazione così com'è, a ridimensionare le nostre aspettative rispetto al cambiamento, mi chiedo se però devo accettare incondizionatamente anche quello che ritengo moralmente inaccettabile, o che comunque mi turba molto.

Si parla spesso di cambiamento, ma se in nome dell’accettazione non si avvia mai un processo, allora questo cambiamento ci sarà mai? 
Non è un po’ arrendersi alla logica del “ma tanto le cose si fanno così, ma tanto il mondo va così…”?!
Dietro questo tipo di ragionamento potrebbe celarsi il pericolo dell’assuefazione ad un mondo ingiusto, il rischio dell’arrendevolezza e della rassegnazione che potrebbero sconfinare nell’indifferenza. O, ancora potremmo rassegnarci per pigrizia. A volte avviare processi è molto faticoso, perché richiede tempo, tanto tempo, energie, forse lotte contro i mulini a vento senza alcun minimo progresso.. mentre spesso  vorremmo tutto e subito ( magari più per appagare il nostro ego).  

Qualcuno potrebbe obiettarmi: ma chi sei tu/chi siamo noi per dire cosa è giusto e sbagliato?!
Verissimo!! Ma almeno sollevare la questione senza la pretesa di insegnare niente a nessuno.. almeno ragionarci insieme.. si può fare?!

Quando ancora mi arrabbio davanti a certe cose e poi ci ripenso, prima mi arrabbio di nuovo perché non ho saputo accettare la situazione, ma poi un po' sono contenta, perché, per come sono fatta, vuol dire che non sono assuefatta; magari sbaglio, ma lo trovo un bene. Forse non mantengo i modi da principessa (che comunque non mi appartengono molto.. ma non preoccupatevi perché non ho picchiato nessuno!!) ma dentro vuol dire che si smuove qualcosa. E mi fa sorridere quando i miei amici si arrabbiano ancora.. non perché sia sadica, ma perché mi dà speranza! 
(ovvio, poi bisogna imparare a gestire con serenità la cosa, però intanto intravedo la speranza di chi ci crede ancora).

Allo stesso tempo ho imparato a fare i conti col fatto che non si possa aiutare a tutti i costi chi non vuole essere aiutato, ma credo comunque che le porte debbano sempre restare speranzosamente aperte, non per insegnare ma per accogliere, senza giudicare. 

Belle parole, eh?! Ma difficile nei fatti, perché è sempre un equilibrio tra chi sono e cosa non sono, tra cosa vorrei e cosa non c'è, tra i miei limiti e le mie speranze, tra me e il resto del mondo.
Però alla fine, mi dico anche che se uno mai si mette in cammino mai raggiunge la meta.. 


Alla luce di queste riflessioni, mi risuonano dentro le parole di Annalena Tonelli, il cui libro mi sta accompagnando in questo ultimo periodo in Kenya. 
Annalena è stata una missionaria laica cattolica che ha speso la sua vita nel deserto con i musulmani, da sola, lavorando e curandone migliaia, senza voler convertire nessuno. E stata uccisa mentre faceva quello che amava. Lei ha avuto il coraggio e l’umiltà di dire “Io sono nessuno”, nonostante il grande lavoro,  riconosciuto anche a livello internazionale. 
Tra l’altro p. Angelo l’ha conosciuta personalmente ed ero molto gasata!

Tra le tante cose che scrive c'è questo:

“Il più grande sbaglio, il più grave delitto è quello di pretendere di risolvere i problemi, di presumere di avere le capacità di farlo, bisogna accettare di fare un poco per pochi, per quei pochi che il Signore ha messo sul nostro cammino, ma quel poco bisogna farlo bene, con la massima dedizione, con la più rigorosa onestà, con tutto l’amore possibile del proprio cuore”


Ecco, forse è così. In Kenya, a Milano o ovunque.

E mentre continuo a ragionarci, aspetto che p. Angelo mi invii una delle sue email.. :)
Angela 

domenica 17 luglio 2016

Mica sfere Pokè

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Dopo una lunga attesa, qualche giorno fa è finalmente uscito Pokemon Go. Per le strade si iniziano a incontrare ragazzi di ogni età che vanno alla ricerca delle creature del nuovo gioco per Android.
In fondo è una novità carina: con il GPS del cellulare puoi rilevare la tua posizione e andare a caccia  dei Pokemon che si nascondono tra le vie della tua città. Il mondo diventa un mega game boy! Puoi scovare uno Charizard tra le montagne o un Bulbasaur nel centro commerciale. È un buon pretesto per fare un giro, organizzare una gita fuori porta o spingersi un po’ più in là del pub sotto casa.

È innegabile che sia anche un po’ inquietante però: si assottiglia sempre più irrevocabilmente il confine tra realtà e finzione. Quello che esiste, quello che c’è di concreto e tangibile è sempre meno distinto da quello che non è reale, frutto della fantasia e dell’ingegno umano.

Ci sono momenti, come per Pokemon Go, in cui la finzione entra concretamente nella realtà della tua serata e l’intangibilità di milioni di pixel sembra tanto vera quanto la schiuma della birra che stai bevendo.
Invece ci sono momenti in cui accade il contrario, quando non è la finzione a sembrare reale ma la realtà a sembrare finzione. La tua vita ti sembra un gioco, uno scherzo ideato da qualche visionario informatico giapponese. Due sere fa hanno annunciato il golpe in Turchia e l’evidenza delle risate degli amici e delle pedine del Monopoli  ha perso di consistenza. 
Non ti sembra vero. 
La realtà stessa perde di veridicità, pare tanto assurda quanto l’improbabile esistenza di Pikachu. Non è possibile!
Non è più solo “un amico del vicino era a Bruxelles il giorno dell’attentato” o “il ragazzo della mia compagna di corso ieri era a Nizza”. 
Questa volta siamo noi. 
Siamo noi che tra due settimane facciamo scalo proprio lì, proprio nell’aeroporto di Istanbul. È il nostro viaggio in Libano in pericolo. Il fulcro attorno a cui girano le nostre scelte da qualche mese a questa parte. Studio un sacco per riuscire a dare l’esame a luglio così parto tranquilla, faccio babysitter così riesco a mettere da parte un po’ di soldi per coprire almeno una parte delle spese, mi ritaglio un po’ di tempo così posso esercitarmi con l’ukulele per portarlo con me.. ma che senso ha?

Non mi sento pronta a rinunciare al nostro viaggio. La follia di questo mondo impazzito mette in dubbio la realtà della mia vita.


Ma qua si tratta di carri armati, mica di sfere Pokè.


Cla

mercoledì 6 luglio 2016

Aiutare gli altri (in ogni circostanza?)

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Voglio condividere con voi un episodio avvenuto oggi che mi ha dato modo di riflettere molto.

Premetto che essere a Cochabamba come serviziocivilista nella commissione  mi sta permettendo di conoscere e vivere molte situazioni e dinamiche tipiche della realtà boliviana, dove il mio "esserci" è davvero a 360 gradi senza essere incasellato sempre e per forza in un ruolo e un posto (e, per quanto all'inizio mi sembrasse un po' disorientante, adesso ci ho preso gusto e c'è sempre molto da imparare).




Situazione:
il comitato/gruppo Caritas della parrocchia "x" oggi aveva la sua riunione settimanale di coordinamento e io e una mia collega siamo andate a fare "seguimiento", ovvero una visita in cui ascoltiamo e vediamo un po' l'andamento del gruppo, i punti di forza, le difficoltà, il calendario delle attività.

(Questo si fa perchè la commissione Caritas Parroquiales (formata in questi mesi anche da me e Francesca) a livello centrale coordina, forma e segue i vari comitati Caritas che si formano in ogni parrocchia.
Negli anni sono nati parecchi gruppi parrocchiali di Caritas, ognuno con il proprio referente, la suddivisione degli incarichi, ognuno con la sua storia e le sue caratteristiche, legate tanto alle persone che ne fanno parte, ma anche alla zona della città in cui è sorto.)

Questo comitato parrocchiale di Caritas il martedì si occupa, oltre alla riunione, di distribuire una borsa di viveri alle persone più bisognose della zona (individuate negli anni grazie a visite domiciliari).

Oggi, lista alla mano, una signora del gruppo accoglieva gli utenti, controllava il nominativo, lo spuntava dall'elenco e consegnava la borsa.
Nel mentre, abbiamo iniziato la riunione con gli integranti del gruppo e tutto filava liscio con i vari punti dell'ordine del giorno, fino a quando...
...è entrata una signora, dall'aria spaesata.
Visibilmente "borracha" (ovvero ubriaca).

Incontrare persone ubriache durante il giorno è una cosa a cui ormai mi sono (quasi) abituata qui a Cochabamba, ma quando sono donne mi fa sempre un po' strano, per di più in questo caso era anche anziana.

Il nominativo della signora era nella lista, quindi teoricamente avrebbe avuto diritto alla sua borsa di viveri, ma la sua condizione "alterata" ha fatto sì che il gruppo le abbia detto di ripassare la settimana successiva, destando una reazione di rabbia da parte della signora.
Ha iniziato ad accusare il gruppo di non fare il proprio dovere, ha detto piangendo che non avrebbe saputo cosa mangiare se non avesse ricevuto questa borsa di viveri (e il gruppo ha replicato che se lei ha trovato i soldi per comprare da bere, di sicuro troverà i soldi per procurarsi del cibo), ha poi ricordato che erano mesi che non veniva a ritirare la sua borsa e che quindi ne aveva diritto a tutti i costi. Ha minacciato di non andare via dalla stanza.
Insomma, a metà ha anche ammesso di aver bevuto (dopo averlo negato per un bel po' di tempo). 
 
Io in tutto ciò vedevo:
  • da una parte un gruppo che aveva preso una posizione, ovvero il fatto di aiutare sì, ma a certe condizioni;
  • dall'altra parte un'anziana fuori di sè, ma che reclamava per un suo diritto, in quanto facente parte di una lista.
La situazione stava degenerando, fino a quando è arrivato un prete che l'ha saputa gestire:
ha preso in disparte la signora, le ha parlato con molta cura, l'ha convinta ad andare fuori a parlare con lui.
Poi è tornato, ha detto al gruppo di darle comunque una borsa di viveri in quanto sarebbe stato l'unico modo per far sì che la situazione non peggiorasse. 
La signora, dopo aver ricevuto la borsa di viveri dal prete, è poi rientrata nella stanza, si è scusata per aver alzato la voce, ha ringraziato e se ne è andata.

Il prete ha spiegato al gruppo che in queste situazioni non bisogna mai porsi "contro", ma assecondare, evitando lo scontro, per poi affrontare il discorso con la persona interessata in un momento in cui lei è lucida.

Il focus della riunione è quindi diventato:
Fino a quando un aiuto è dovuto? 
 Ci sono dei limiti nell'aiutare?
 E ancora: 
aiutare sempre e in modo indiscriminato è assistenzialismo o è giustizia?

Il prete ha affrontato questa riflessione portandoci la sua testimonianza di vita, 
dicendoci poi che è nostro compito aiutare, e che il modo in cui vengono usati gli aiuti che si danno dipende da chi li riceve, noi non abbiamo molto potere su questo e non sta a noi giudicare.

...e io come mi sarei comportata?
...e voi
  
A presto,
Lucia