"Un gobierno que no castiga la violencia contra las Mujeres...Es cómplice de los delitos", "No son arrebatos, son asesinados" questi alcuni dei cori gridati dalle donne, dalle/dai trans, dalle lesbiche. dai gay e dagli uomini scesi in piazza il 25 di Novembre a Managua, in occasione della giornata internazionale del No alla violenza contro le donne. In Nicaragua nel 2016 sono state registrate dagli osservatori delle donne 50 casi di femminicidio che per la statische della polizia nazionale sono invece solo 8, dato che è indice di un altissimo livello di impunità.
La data del 25 Novembre fu stabilita nel 1881, quando a Bogotà si tenne il primo incontro femminista LatinoAmericano e fu scelta in memoria delle tre sorelle Mirabal, assassinate quello stesso giorno del 1960 a causa della loro strenua lotta contro la dittatura di Trujillo nella Repubblica Domenicana.
La violenza di genere e la sua espressione più tragica, il femminicidio, non sono e non devono essere intese come una mera questione domestica, privata.
Per questa ragione le femministe nicaraguensi in vista del 25 Novembre hanno scritto un comunicato dal titolo " per un posizionamento femminista difronte alla situazione nazionale", che va ben oltre la denuncia della violenza privata e allarga lo sguardo, da tematiche prettamente di genere, a problematiche economiche, politiche e sociali più ampie che non sono e non devono essere sconnesse dalle prime.
Le questioni chiave sono la penalizzazione dell'aborto terapeutico e lo smantellamento della "Ley 779", legge integrale contro la violenza di genere, misure che colpiscono maggiormante le donne povere, le indigene, le afrodiscendenti, le contadine, le donne con handicap, le sex workers, le migranti, le lesbiche e le trans. Poi, a partire da qui, il ragionamento si amplia arrivando a comprendere nell'analisi molte altre tematiche come l'alto tasso di disoccupazione, di lavoro precario e informale; la tendenza del governo a privilegiare l'investimento di grandi capitali, a scapito dello sfruttamento della mano d'opera; la corruzione e il rafforzamento di una logica autoritaria; la farsa elettorale; la tendenza ad un riarmo e ad una militarizzazione, in un Paese dove ancora sono aperte le ferite della guerra degli anni 70/80 e il ricordo di una lunga dittatura.
Il movimento femminista nicaraguense così, oggi come per i trent'anni passati, prende parola, schierandosi contro ogni forma di dominio e autoritarismo, a partire da quello dell'uomo sulla donna, in un Paese, come il Nicaragua, dove un machismo esasperato è dominante in tutte le sfere della societá.
Il 25 e il 26 Novembre sono scese in piazza le donne di molte città dell'America Latina al grido di "Ni una menos", richiamandosi al movimento iniziato in Argentina tempo fa contro il femminicidio.
Ispirate dalle donne latinoamericane anche in Italia una piattaforma ampia ed eterogenea ha costruito una grande manifestazione per questa data.
Da Roma a Managua un'unica lotta, per la libertà e l'autodeterminazione della donna contro ogni forma di patriarcato...e soprattutto perchè: "ni una màs, ni una màs, ni una asesinadas màs."
https://lamericalatina.net/2016/11/25/niunamenos-dal-nicaragua-lallarme-contro-il-governo-reazionario-della-dinastia-ortega/
martedì 29 novembre 2016
lunedì 28 novembre 2016
Marocco: i frutti dei fichi
Carissimi tutti,
circa tre mesi fa i carissimi Bu.Ca. (buoni
cantieristi) lasciavano definitivamente il suolo marocchino, dopo alcune
settimane itineranti estremamente intense. Da Bu.Co. (buon coordinatore),
è stato davvero un piacere leggere i tanti post scritti, le tante riflessioni
portate avanti, gli sforzi di comprendere davvero l’esperienza vissuta; di “portare
a casa” questa “solidarietà geometrica” di cui si parlava tempo fa. Ho
aspettato giustamente un trimestre prima di scrivere questo post, spinto dalla
convinzione che alcune riflessioni sono ancora più preziose se consegnate “a
freddo”, e mosso dalla certezza che se una cosa veramente “ci sta a cuore”, la
si riporta al cuore (re-cordis) nel tempo, la si lascia fruttificare in
se stessi.
Per questo, mi piacerebbe condividere anche con voi
quelle tre riflessioni consegnate ai ragazzi durante l’eucarestia finale, poche
ore prima di decollare. Tre spunti su tre temi che ci hanno accompagnato nel
nostro itinere. Affinché ci possano guidare nella nostra vita qui, nella
nostra quotidianità.
Prima settimana:
migrazioni sconfinanti
Di migranti, di storie strazianti, di muri, di reti,
di leggi, di documenti mancanti, di ferite ne abbiamo sentite abbastanza.
Eppure Inma, che naviga in questa disperazione ogni giorno, ci ha consegnato
così, quasi di sfuggita, ma con un sorriso amaro, queste parole:
“altri soldi per costruire un altro muro, sì, dietro
questo … sì … ma chi vuoi fermare? La Storia non si ferma certo davanti a un
terzo muro …”.
Questa è la prima riflessione che mi piace portare a
casa. Questa certezza di Inma, che tanto mi ha ricordato la canzone di De
Gregori. Una canzone che ci chiama a gran voce:
La storia siamo
noi, siamo noi queste onde nel mare.
La storia non si
ferma davvero davanti a un portone.
La storia dà i
brividi, perché nessuno la può fermare.
La storia siamo
noi, attenzione, nessuno si senta escluso.
Seconda settimana: alterità inconfessate
Il secondo fil rouge del nostro CdS è stato il
concetto di alterità, la diversità che abbiamo incontrato in Marocco, da nord a
sud, dalla cosmopolita Tangeri, alla tranquilla Rabat, alla sperduta Midelt,
fino alle tradizionali città di Fez e Meknès. E ancora, l’alterità berbera di
Tatiouine, l’alterità migrante, l’alterità religiosa cristiana in un contesto
musulmano, la nostra alterità di italiani in un paese ospite. La frase della
settimana era “Je est un autre” (parafrasando, “Il mio essere è
l’altro”), un po’ più ambiziosa del “je suis Charlie” o “je suis
Paris” di turno. Eppure quanto ci ha riempito questa alterità? La frase che
mi piacerebbe consegnarvi è di Mohammed (ovviamente!), il receptionist
dell’ostello di Rabat, che, assaporando un Tajine, ha detto: “Nella differenza
sta la Misericordia”. Ecco, che sia questa sua frase il nostro sestante nel
mare dell’Alterità.
Terza settimana : dialogo interreligioso
Il terzo grande argomento che ha impregnato il nostro
viaggio marocchino è stato il dialogo interreligioso e, nello specifico, le
relazioni tra una “Chiesa di frontiera e totalmente in uscita” e il suo
anfitrione, il mondo musulmano. Siamo passati per alcuni luoghi chiave di
questo dialogo continuo, abbiamo ascoltato e letto testimoni preziosi e uno di
loro, Frère Christian de Chergé, monaco di Tibhirine, ci ha consegnato
una frase da conservare per bene: ci parlava di un una scala doppia, di quelle che poggiano a terra su due punti, con la
parte alta che tocca il cielo, formando dunque una specie di triangolo. Il
credente cristiano sale da un lato, quello musulmano dall’altro, ognuno con il
suo metodo, la sua Via. Al salire sempre più vicini a Dio, ci si ritrova,
inevitabilmente, più vicini all’altro. E viceversa. Su quella scala
doppia noi cantieristi marocchini, guarda te il caso, ci siamo saliti pochi
giorni dopo aver letto quel testo mistico. Già! Perché, con buona pace della
626, l’imbianchino di Meknès aveva soltanto delle scale così, e per pitturare
il soffitto, non ci resta che salire in coppia su queste scale e tenersi in
equilibrio a vicenda, con i nostri rulli che sbatacchiavano un po’ contro muro, un po’ nel vuoto. E che
brividi quando dall’altra parte della scala l’altro si muoveva senza avvisare.
Questa è la frase-immagine che porterei a casa: una scala sulla quale siamo
chiamati a salire, corresponsabili, interreligiosamente, dell’altro.
Tre frasi, tre immagini, tre semi (di fico di
Volubilis?) da coltivare in noi, da ripiantare qui, nella nostra quotidianità e
per cui ringraziare. Perché, come ci ha detto Frère Joel : « Tout
est Grâce ».
R
alle
22:32
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Marocco
mercoledì 23 novembre 2016
Di elezioni e cieli stellati
E’ strano …
E’strano Haiti, è strana questa realtà, è strano vivere
queste giornate proprio qui.
Da domenica scorsa stiamo
vivendo il fermento elettorale del Paese: i candidati hanno ultimato le
loro campagne elettorali e in strada non si vedono che cartelloni inneggianti a
Jude Celestin, piuttosto che Jovenel Moise, passando per altri candidati.
Ci sono ragazzi haitiani che volevano andare a votare e ce ne
sono, molti, che non sono andati, perché la fiducia nella politica e nei
candidati è praticamente nulla. Un po’ come in tutto il mondo diciamo … però
qui ad Haiti è strano, perché da domenica sera, finite le elezioni, sono
iniziati i disordini. Tensioni, traffico, atti intimidatori, rivoluzioni
invocate, Aristide, nostalgico dittatore, che rivuole il potere, la polizia che
è autorizzata a intervenire per tutelare le votazioni. Intanto, noi siamo qui a
casa in attesa di notizie, scalpitanti e pronti a ritornare a Kay Chal: i
ragazzi ci mancano, sarebbe bello essere lì con loro. Comunque, fino a domenica non si saprà nulla e bisognerà attendere i
risultati.
E’ belo però …
Perché in tutto ciò, la vita continua, continua qui nella
missione, in cui noi prepariamo materiale e attività per Kay Chal; continua nel
villaggio qui vicino, dove la gente continua a giocare a calcio, basket,
studiare nella biblioteca del centro; continua in città, dove, ci racconta suor
Luisa, al nostro centro i ragazzi, magari un po’ meno, vengono comunque.
E’ semplicemente vita, ed è bello perché ti accorgi che nulla
può fermarla. Ed è bella.
E’ strano però …
In tutto ciò fermarci ieri sera a guardare il cielo stellato,
così bello, così pieno, così dolce. Così vivo, quasi se ne infischiasse di
Aristide; delle tensioni; della politica, dei disordini. Ma così vicino a
ognuno di noi, a ogni haitiano che lotta e si districa in questo paese così
sfortunato, ma abitato da un popolo forte, resistente, che continua a ripartire
da zero, anche di fronte a tornado, terremoti, colera, dittatori, fame: gli
haitiani ripartono da zero ogni volta, con dignità, e non si può arrendersi.
Ringrazio per avere la fortuna di vivere queste sensazioni,
emozioni forti, belle, anche queste difficoltà e queste paure, cercando, pian
piano, di comprendere, ma soprattutto apprendere da questa gente.
Fede Uez
domenica 20 novembre 2016
Pane e libertà
Lunedì mattina
in ufficio si respira un’aria di scoraggiamento e preoccupazione. Domenica
13/11 ci sono state le elezioni presidenziali e come spesso accade, soprattutto
ultimamente, il risultato non è quello auspicato. Si è trattato di un momento
storico fondamentale per la Moldova. Innanzitutto perché queste elezioni erano
le prime dirette dal 1997; inoltre perché l’esito sarebbe stato un punto di
svolta decisivo riguardo la direzione intrapresa dal paese, se verso Bruxelles
o Mosca. Infatti la politica moldava, come la sua gente, si trova divisa in due
correnti fondamentali, una filorussa l’altra filo-europeista. Questi due
orientamenti sono incarnati dai due candidati maggiormente sostenuti: Igor Dodon,
rappresentante del partito socialista e dichiaratamente filorusso e Maria
Sandu, del partito dell’Azione e solidarietà prossimo all'Europa. Numerosi
sondaggi davano come favorito Dodon, previsione non sorprendente dato l’andamento
poco positivo degli ultimi governi filo-europeisti. Dopo una svolta governativa verso
l’Occidente, le cui promesse di miglioramento delle condizioni di vita e un
avvicinamento all'Europa sono miseramente fallite, è comprensibile come i
cittadini moldavi pongano le proprie speranze altrove. I più disillusi sono gli
anziani, che guardano con nostalgia agli anni del dominio russo, in cui di
certo mancava la libertà, ma non il pane in tavola. La mia iniziale riluttanza
di fronte a questo desiderio di un passato così drammatico, è andata via via
scemando guardando un documentario in cui veniva descritta la crisi economica
che ha investito la Moldova dopo il crollo dell’Unione Sovietica e il raggiungimento dell’autonomia.
Dalla testimonianza di alcune persone emergeva il passaggio da uno stato di
relativo benessere a una condizione di povertà assoluta. Così mi sono trovata,
non a condividere questa posizione, ma a comprenderla di più, constatando che è
più semplice speculare di libertà e altri valori a stomaco pieno. Tornando a
noi, Lunedì ci e stato comunicato il verdetto e come previsto Dodon ha
trionfato. La sua vittoria tuttavia non si può definire pacifica. Una delle
polemiche più accese riguarda la votazione estera. Infatti è stata denunciata
la disfunzione di numerosi seggi elettorali: a Londra, Bologna, Padova, Parigi,
Bucarest sarebbero finite le schede elettorali, impedendo il voto di molti
moldavi espatriati. Così la cocente delusione si ricopre di un velo di
indignazione, che al lavoro scaturisce in dibatti accesi. In particolare noto
lo sconforto di una mia giovane collega, attiva sostenitrice della candidata
democratica Sandu. Quello che mi colpisce, aldilà del resoconto di tutti le
“gabole” propagandistiche ed elettorali per cui Dodon e i suoi sostenitori sono
accusati, è la sua rassegnazione di fronte a un insanabile spaccatura del
popolo Moldavo. Una divisione geopolitica, storica, culturale, ritratta alla
perfezione dall'andamento di queste elezioni. Una mancanza di identità riscontrabile
nel quotidiano: prodotti con etichette scritte in russo, cartelli stradali
scritti in russo, le centraliniste dei taxi che ti rispondono in russo, persone
più anziane che ti parlano in russo e che a un tuo tentennante accenno di
risposta in romeno, non sembrano disponibili ad adeguarsi e continuano con l’inaccessibile
cirillico. Dopo un iniziale abbattimento nel ritrarmi la complessa problematicità
della situazione moldava attuale, ritrovo un barlume di fiducia
negli occhi della mia collega che ad un tratto mi dice: “sicuramente non ne vedrò
i frutti, forse li vedranno i figli dei miei figli, ma io e gli altri giovani
moldavi possiamo farci promotori, con il nostro piccolo contributo, di un
cambiamento, tratteggiando insieme un volto comune per il nostro paese."
alle
17:59
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Arianna Fioretto,
Moldova,
SCE2016
sabato 19 novembre 2016
Nueva Vida
Il primo posto dove ho messo piede appena arrivata a Managua non è stato, come spesso capita arrivando in un luogo sconosciuto, il centro, ma un quartiere periferico, Nueva Vida, barrio ai confini di Ciudad Sandino comune all’estremo Nord Ovest della città.
Per diversi giorni Nueva Vida ha costituito il mio orizzonte principale, arrivavo qui poco dopo l'alba e tornavo a casa appena prima del tramonto tanto che ad un certo punto ho avuto la sensazione di essere segregata, che da qualche parte ci fosse un'intera città, di cui ancora non sapevo nulla, di cui non conoscevo le strade e gli snodi vitali, che sentivo il bisogno di esplorare e afferrare e che da lì non fosse possibile.
Mi sono ben presto accorta di quanto questa sensazione non avesse senso e di come Nueva Vida non sia altro che una parte integrante e costitutiva della storia e del presente di questa città, uno spazio tanto marginale quanto fondamentale nella comprensione dell'ecosistema che la circonda.
Nueva Vida è nata nel 1998 quando a seguito dell'Uragano Mitch migliaia di persone che abitavano nei quartieri a ridosso del lago di Managua, sfollate si accamparono ai margini di Ciudad Sandino (che a sua volta era il risultato degli accampamenti post terremoto del 1972) e qui vi rimasero. Negli anni la popolazione è cresciuta, sempre più persone hanno cominciato ad abitare il barrio principalmente per via del costo molto basso della vita.
Le prime persone che si insediarono nel barrio, non ebbero mai la possibilità di tornare alle loro case in riva al lago, sebbene la zona sia stata poi ricostruita e oggi sia sede di ristoranti e locali alla moda.
Il governo dopo aver costruito alcune case in muratura, ha completamente abbandonato l'area dove ancora oggi mancano i servizi fondamentali, le strade sono quasi tutte in terra battuta le scuole sono sovraffollate, c'è un unico ospedale (a Ciudad Sandino) che non riesce a garantire un effettiva copertura sanitaria e manca completamente una rete fognaria.
Oltre a questo Nueva Vida vanta della presenza della cosiddetta “Chureka”, una discarica a cielo aperto in continua espansione, che è diventata per gli abitanti della zona una delle principali fonti di lavoro, ovviamente informale. Numerose sono le persone di tutte le età e genere che lavorano nella discarica, principalmente si occupano di raccogliere e rivendere i materiali riciclabili.
Il lavoro formale quasi non esiste e chi non lavora nella chureka ha messo in piedi piccole attività commerciali all'interno delle proprie abitazioni, per la maggior parte “pulperie”, sorte di spacci dove si trovano prodotti di vario genere dagli alimentari, ai prodotti per la casa; altri ancora lavorano in una delle zone franche di Managua.1
Gli anni successivi all'uragano sono stati anche anni in cui i Paesi occidentali investivano ampie somme nella cooperazione internazionale e proprio a causa dell’uragano, che portò il Nicaragua ad
essere considerato uno dei Paesi più poveri dell’America Latina, il Paese divenne un obiettivo privilegiato per l’investimento di tali fondi.
Tali interventi umanitari hanno operato nell’ottica dell’emergenza, caratterizzandosi per un approccio fortemente assistenzialista , che nella maggior parte dei casi non ha lasciato traccia sui territori, se non nel creare dipendenza e ulteriore isolamento.
Col passare degli anni i fondi internazionali sono diminuiti drasticamente, fino quasi a sparire e all’assistenzialismo internazionale è subentrato quello del governo, unito a quello delle Chiese a maggioranza evangeliche, che nel caso di Nueva Vida concentrano moltissimi sforzi nell’evangelizzazione.
Ad oggi Nueva Vida è uno dei quartieri più poveri di Managua, come tale si porta addosso un immaginario stereotipato in cui realtà e leggenda si fondono e che racconta di questo barrio come luogo di criminalità e violenza.
Colpisce camminando per le strade del barrio vedere case di lamiera difese da matasse di filo spinato, le piccole attività commerciali trincerate dietro sbarre con una sola finestrella da cui vengono erogati i prodotti e l’intuire dai racconti un forte senso di insicurezza e diffidenza.
Questo contrasta con altri aspetti per così dire più solidali, come il fatto che quasi tutte le “pulperie” facciano credito senza interessi, o che spesso e volentieri si trovino a vivere sotto lo stesso tetto persone non appartenenti al nucleo famigliare stretto e a volte addirittura nemmeno al gruppo famigliare toutcourt, o la presenza costante di persone per le strade e il movimento, che certo non incute alcun timore.
Nueva Vida appare come una realtà complessa, in continua espansione, sia per un impoverimento che produce un movimento dal centro alla periferia, sia per una costante migrazione dalla campagna alla città; è una realtà che rimanda a situazioni e contesti che trascendono la vita di questo barrio.
Così è apparsa Nueva Vida al mio sguardo curioso e fugace a poco più di due settimane dal mio arrivo, con la consapevolezza che non basti una vita per cogliere le sfumature e la complessità di un posto, figuriamoci di un intero Paese continuerò a cercare connessioni, contraddizioni e resistenze a partire da questo relativamente piccolo e marginale quartiere.
1 Già nel 1976 fu approvata la legge che permetteva lo sviluppo di zone commercialia a statuto speciali, non tassate. Lo sviluppo di tali aree fu interrotto negli anni ottanta durante tutto il periodo Sandinista e fu ripreso a inizio anni ’90 con il governo Chamorro, che diede nuovo impulso alla liberalizzazione del mercato e nuove aree vennero aperte in accordo con Stati Uniti e Taiwan. Ad oggi sono circa 109.000 le persone che lavorano in tali aree e la crescita è costante. Il ritorno di un governo sandinista dal 2006 non ha cambiato questa tendenza.
1 Già nel 1976 fu approvata la legge che permetteva lo sviluppo di zone commercialia a statuto speciali, non tassate. Lo sviluppo di tali aree fu interrotto negli anni ottanta durante tutto il periodo Sandinista e fu ripreso a inizio anni ’90 con il governo Chamorro, che diede nuovo impulso alla liberalizzazione del mercato e nuove aree vennero aperte in accordo con Stati Uniti e Taiwan. Ad oggi sono circa 109.000 le persone che lavorano in tali aree e la crescita è costante. Il ritorno di un governo sandinista dal 2006 non ha cambiato questa tendenza.
giovedì 17 novembre 2016
Beirut mi sta sfidando
Beirut mi sta sfidando.
Mi sfida il suo traffico, il rumore dei clacson, lo smog e le sue polveri.
Mi sfidano le strade, che sembrano un campo da gioco dove macchine anarchiche fanno a gara a chi passa per prima o a chi trova lo spazio più angusto dove infilarsi per guadagnare qualche metro.
Mi sfida l'odore di spazzatura ammucchiata a cielo aperto e mi sfida questo quadro disordinato di case ammassate senza ordine né criterio.
Ma più di tutto mi sfida la sua lingua, che tanto mi affascina e tanto mi confonde. Una lingua che si fa muro quando il suo suono non mi riporta a niente di conosciuto. Mi capita per strada, sui taxi, nei centri in cui lavoro. E così ci sono domande che non trovano risposta, curiosità che non trovano informazioni, approcci che non trovano dialogo.
Me ne sto accorgendo piano, giorno dopo giorno.
È da due settimane che sono arrivata in Libano quando, in circa tre ore di viaggio, un aereo mi ha portata dall'Europa al Medio Oriente. Con una sensazione mista di spaesamento e stupore, mi sono trattenuta sulla soglia e ho sbirciato da lì.
Lunedì ho cominciato a lavorare a tempo pieno e, sarà per i ritmi definiti, sarà per l'incontro con i colleghi locali, sento di aver cominciato ad addentrarmi, lentamente, in questo Paese, piccolo ma complesso. Tuttavia, per ogni passo che muovo sembra comparire di fronte a me un mattoncino e, mattoncino dopo mattoncino, quel muro.
Capita quindi che mi ritrovo in un taxi guidato da un signore con il viso segnato dagli anni che, indicando fuori dal finestrino, mi mostra qualcosa che non riesco a vedere e mi racconta una storia che non posso capire.
Capita che, dopo svariati tentativi di comunicazione che non hanno portato alcun frutto, ricambio con sguardo dispiaciuto e colpevole lo sguardo profondo e curioso delle ragazze siriane ed etiopi che vogliono sapere di più sulla straniera appena arrivata dall'Italia.
E allora, nei casi in cui il tempo lo permette, riscopro altre forme di comunicazione e tra gesti, mimi e un po' di fantasia si costruisce insieme un linguaggio condiviso, che mi costringe ad andare oltre un fiume di parole accostate con disattenzione e mi impone di essere presente e attenta, per capire l'altro e quello che cerca di dirmi.
Nel frattempo, inizierò la settimana prossima il corso di arabo e, da non-alfabetizzata, ricomincerò da capo per imparare a leggere e scrivere un alfabeto che non conosco e, passo dopo passo, addentrarmi un po' di più nella complessità di questo mondo.
Beirut mi sta sfidando e io accetto la sfida.
Giulia
Mi sfida il suo traffico, il rumore dei clacson, lo smog e le sue polveri.
Mi sfidano le strade, che sembrano un campo da gioco dove macchine anarchiche fanno a gara a chi passa per prima o a chi trova lo spazio più angusto dove infilarsi per guadagnare qualche metro.
Mi sfida l'odore di spazzatura ammucchiata a cielo aperto e mi sfida questo quadro disordinato di case ammassate senza ordine né criterio.
Ma più di tutto mi sfida la sua lingua, che tanto mi affascina e tanto mi confonde. Una lingua che si fa muro quando il suo suono non mi riporta a niente di conosciuto. Mi capita per strada, sui taxi, nei centri in cui lavoro. E così ci sono domande che non trovano risposta, curiosità che non trovano informazioni, approcci che non trovano dialogo.
Me ne sto accorgendo piano, giorno dopo giorno.
È da due settimane che sono arrivata in Libano quando, in circa tre ore di viaggio, un aereo mi ha portata dall'Europa al Medio Oriente. Con una sensazione mista di spaesamento e stupore, mi sono trattenuta sulla soglia e ho sbirciato da lì.
Lunedì ho cominciato a lavorare a tempo pieno e, sarà per i ritmi definiti, sarà per l'incontro con i colleghi locali, sento di aver cominciato ad addentrarmi, lentamente, in questo Paese, piccolo ma complesso. Tuttavia, per ogni passo che muovo sembra comparire di fronte a me un mattoncino e, mattoncino dopo mattoncino, quel muro.
Capita quindi che mi ritrovo in un taxi guidato da un signore con il viso segnato dagli anni che, indicando fuori dal finestrino, mi mostra qualcosa che non riesco a vedere e mi racconta una storia che non posso capire.
Capita che, dopo svariati tentativi di comunicazione che non hanno portato alcun frutto, ricambio con sguardo dispiaciuto e colpevole lo sguardo profondo e curioso delle ragazze siriane ed etiopi che vogliono sapere di più sulla straniera appena arrivata dall'Italia.
E allora, nei casi in cui il tempo lo permette, riscopro altre forme di comunicazione e tra gesti, mimi e un po' di fantasia si costruisce insieme un linguaggio condiviso, che mi costringe ad andare oltre un fiume di parole accostate con disattenzione e mi impone di essere presente e attenta, per capire l'altro e quello che cerca di dirmi.
Nel frattempo, inizierò la settimana prossima il corso di arabo e, da non-alfabetizzata, ricomincerò da capo per imparare a leggere e scrivere un alfabeto che non conosco e, passo dopo passo, addentrarmi un po' di più nella complessità di questo mondo.
Beirut mi sta sfidando e io accetto la sfida.
Giulia
alle
21:18
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SCE2016
Moldova: ADOPTA UN VOT!!!
Mi intrufolo nel blog dopo qualche annetto, per raccontarvi una storiella…
Nel frattempo viene documentato che in 12 seggi sono stati invertiti i risultati del voto a favore del maschio di ghiaccio.... il Sior Notaio decide che si devono ricontare i dati del televoto....la gente scende nelle piazze all’interno del panzerotto e davanti alle ambasciate di tutto il mondo...e il presidente a oltre 48 ore dalla fine delle votazioni non è stato ancora proclamato...
Stefano – (Sce 2008, Moldova)
In uno stato dell’Ex Unione Sovietica chiamato Moldova, da altri Moldavia e per chi non sa prendere una posizione “Moldovia”, dopo 25 anni dalla sua esistenza, e a 20 anni dall’ultima volta è stata data al popolo, la possibilità di eleggere il presidente della propria Repubblica.
A contendersi l’ambito trono del “paese più povero” del vecchio continente, una donna minuta, economista di professione che, dopo una serie di esperienze all’estero, è stata richiamata in patria per seguire il sogno europeo e un uomo tutto d’un pezzo, anch’esso economista, politico di lunga data e con la sguardo ad Est verso la “Madre Russia”.
“Che il ballo abbia inizio!!!” sentenziò “Sior Notaio”, in una triste domenica di fine ottobre e ci manca poco che, al primo giro di valzer, il “Maschio di ghiaccio” riesca ad ottenere lo scettro del potere ma qualcuno dalla folla urla…”Non mi sei arrivato!!!….Non hai l’X Factor!!!…
Mai trebuie un dans!!! Ovvero… ancora una danza!!!
Il “maschio di ghiaccio” sente la propria “Madre” per avere dei consigli su come affrontare la “Sfida”, raggruppa i pochi amichetti che ha, ma che tanta ricchezza posseggono, per preparare la coreografia, chiama televisioni e giornali per conquistare maggiori consensi con il “televoto”, invece di un milione di posti di lavoro minaccia che con la “Piccola Donna” al potere, dall’Europa arriveranno 300.000 siriani!!!….non solo, verranno chiuse le chiese!!!
Tant’è che nei villaggi molti preti preoccupati lanciano il proprio anatema durante le prediche “Dio ha detto che se governerà una donna arriverà la guerra!”
Il "Bruno Vespa" Moldavo, la sera successiva al primo giro di valzer, mostra un plastico che simboleggia come la popolazione ha votato le prima esibizione. Il Paese si presenta come un gigantesco panzerotto schiacciato appena sfornato. L’esterno è croccante, compatto, impenetrabile insomma molto “sovietico” ma l’interno ribolle, si agita e alla fine sotto pressione esplode lanciando al di fuori tante gocce tutte intorno e solo minuscole briciole.
Un terzo del contenuto è ormai sul tavolo, sono i votanti che stanno all’estero, per loro, sparsi in giro per il mondo lo spettacolo è stato visibile in sole sessanta località, ma sono rimasti attratti da questa “Piccola Donna”.
Dalla Spagna ad una ragazza, succede che il panzerotto al plastico rimanga sullo stomaco, e decide di farlo sapere su un libro chiamato “Faccia”. Li incontra tante facce sparse per il mondo che come a lei il plastico è andato di traverso. Decidono di unirisi e sostenere la “Piccola Donna”, nel secondo giro di Valzer. Ma come? Sono lontani.... sparsi per il mondo....e, anche per il secondo giro, lo spettacolo sarà visibile solo in un centinaio di località del globo, alcune a centinaia di chilometri di distanza da dove abitano. Ecco che al "gruppo di facc"e viene un’idea: “Adottiamo un voto!!!”. Vuoi partecipare allo spettacolo ma sei distante? Vieni a casa nostra! Ti ospitiamo noi!!! Non sai come venire? Veniamo a prenderti e ti portiamo a casa appena finito!!! Le gocce di mozzarella e pomodoro del panzerotto sparse sul tavolo si muovono, parlano, si ingrossano diventano un “esercito” ed in pochi giorni le facce sul quella pagina del libro diventano 80.000!
E’ il grande giorno! L’uomo di ghiaccio e la piccola donna si presentano puntali alla “Grande Sfida”. Scatta il televoto! Nonostante il panzerotto moldavo, si imbianchi della prime nevicate di stagione la gente piano piano inizia a dare le proprie preferenze. Il vero boom sembra però arrivare dal di fuori....nelle località sparse per il mondo le linee sono intasate, bisogna aspettare ore prima di poter riuscire a prendere linea per votare.
Si dice che nove persone su dieci, da tutto il mondo, stiano votando la “Piccola Donna”!
Ma cosa succede??? “Avete esaurito le vostre possibilità di voto...per voi l’elezione finisce qui!!! Ecco quello che si sono sentite dire molte facce che sono state adottate, proprio per poter dire la loro...che hanno fatto centinaia di chilometri, speso soldi e chiesto permessi di lavoro per poter partecipare...
Si dice che nove persone su dieci, da tutto il mondo, stiano votando la “Piccola Donna”!
Ma cosa succede??? “Avete esaurito le vostre possibilità di voto...per voi l’elezione finisce qui!!! Ecco quello che si sono sentite dire molte facce che sono state adottate, proprio per poter dire la loro...che hanno fatto centinaia di chilometri, speso soldi e chiesto permessi di lavoro per poter partecipare...
Intanto nel bel mezzo del panzerotto si muovono decine di pullman verso le postazioni di voto...il biglietto è gratuito.....all’intero si parla solo russo...vengono distribuiti generi alimentari e ad ognuno dei viaggiatori viene dato l’equivalente di 5/10€ in cambio di una promessa di “votare bene”...arrivano da una parte del panzerotto che qualche tempo fa si è stufato di rimanere attaccato e ha deciso di stare per i fatti suoi e di parlare direttamente con la “Madre”....li non ci sono cabine per televotare e allora sembra che la “Mamma” abbia deciso di pagare a tutti il viaggio.....
C’è poi una parte del panzerotto che nel frattempo, col passare delle votazioni è diventato crosta per il 99%...
Fuori dal panzerotto c’è ancora qualcuno che riesce a trovare la linea....”Ma come ho già televotato???” dice una signora dagli States....” Guardi lei ha votato dall’interno del panzerotto giusto una paio d’ore fa...” le risponde un funzionario; “Ma io nel panzerotto non ci sto da dieci anni!!!” ribatte la donna...”Mi dispiace, lei ha diritto ad un solo televoto...” E la signora risale sull’aereo per tornare a casa....
Arriva finalmente la sera...è il momento di mettersi davanti alla Tv per vedere i risultati.
Il “maschio di ghiaccio” ha vinto!!!!
Il 58% a suo favore con il quale inizia la trasmissione diventa 52% nel corso della notte ed alla mattina la Moldova ha nuovo Presidente della Repubblica!!!
“Fermi tutti!!!” dice con voce ferma ma gentile la “Piccola Donna”.... “migliaia di persone all’estero non hanno avuto la possibilità di televotare!”....”sono state elezioni sporcate dai soldi”.....”ci sono state irregolarità nelle votazioni!”.....”Chiediamo le dimissioni del “Sior Notaio”...
Nel frattempo viene documentato che in 12 seggi sono stati invertiti i risultati del voto a favore del maschio di ghiaccio.... il Sior Notaio decide che si devono ricontare i dati del televoto....la gente scende nelle piazze all’interno del panzerotto e davanti alle ambasciate di tutto il mondo...e il presidente a oltre 48 ore dalla fine delle votazioni non è stato ancora proclamato...
No.... questa non è una storiella...è la Repubblica Moldova il 16 Novembre 2016....un Paese profondamente diviso....che non sa quale lingua parlare....che crede nella stessa religione ma con due diverse prospettive.... che non sa andare in Europa o tornare sotto l’ala protettrice russa...dove bastano 5/10 euro per comprare una persona....dove sparisce 1 miliardo di dollari e non si sa dove.... dove da qualche anno non si riesce ad avere una maggioranza di governo... che vede i villaggi svuotarsi...madri e padri lasciare i propri figli ed il proprio paese in cerca di fortuna...che ha un terzo della popolazione sparsa per il mondo...
Eppure Domenica 13 Novembre fuori dal seggio di Via Mascheroni a Milano, ho visto la Moldova che conosco... fatta di gente che sa sorridere con poco.... che ti da una mano anche se non l’hai mai vista prima....anche se tu sei di Milano, ma ti indica la strada per dove andare a votare appena esci dalla metropolitana... che, con la fila lunga un ora, fa passare davanti le madri con i loro figli....che ha nostalgia e voglia di “acasa” come si dice da quelle parti....
Nei prossimi giorni verrà probabilmente ufficializzato il nuovo Presidente della Repubblica di Moldova o forse si opterà per un nuovo giro di valzer. Ha poca importanza...
La campagna lanciata su Facebook, “Adopta un vot! da una ragazza moldava residente in Spagna, ha fatto riscoprire in molti che sono partiti ed in tanti che sono rimasti in Moldova la bellezza di questo popolo che non ha ancora ben capito chi è ma che grazie all’amicizia, la fratellanza e la solidarietà ha permesso a 135.000 persone sparse per il mondo di andare a votare nei soli 100 seggi presenti al di fuori del territorio moldavo.
Sono bastate un paio di settimane per mostrare il volto più bello di un paese... sono state persone normali a farlo....non politici...letterati o bla bla bla....avanti così! FORZA MOLDOVA!!!!
Stefano – (Sce 2008, Moldova)
lunedì 14 novembre 2016
Non ereditiamo la terra dai nostri antenati, la prendiamo in prestito dai nostri figli.
Siamo a Mombasa, è il 10
novembre. Ci alziamo all'alba per partire in direzione Kilifi. Ci
hanno informato che la regione è in preda a una grande siccità, si
dice che sia la peggiore degli ultimi trent'anni e che questo fenomeno si stia verficando sempre più spesso. Alle sette del
mattino il sole è già caldo, i finestrini dell'auto aperti sono
d'obbligo e la polvere non tarda ad attaccarsi alla pelle, ai
vestiti, alla gola. Mano a mano che ci allontaniamo dalla costa
Keniana il paesaggio cambia drasticamente, il verde brillante lascia
spazio al rosso della terra e infine al bianco della vegetazione
secca. Dobbiamo fermare la macchina per far passare un pastore con le
sue mucche. Gli animali si trascinano stanchi, magri, assetati.
L'agronoma che segue alcuni beneficiari dei progetti agricoli di
Caritas ci accompagna a vedere la situazione. Incontriamo il primo
ragazzo che ci porta a vedere il suo orto. Non l'ha fatto vicino a
casa perché non sarebbe nato nulla. Ha provato a seminare al fianco
di una delle ultime pozze d'acqua che ancora resistono a questa
siccità. Le stagioni della pioggia di solito sono due: una a
maggio/aprile e una a ottobre/novembre. A maggio 2016 le piogge sono
state scarse e dopo di esse nessuno ha più sentito il dolce suono
della pioggia. Mentre l'uomo ci mostra le sue poche piantine
raggrinzite arrivano un gruppo di ragazze a prelevare un po' d'acqua
melmosa dallo stagno.
L'erba sotto i nostri piedi si sbriciola, la terra sembra sabbia. Mentre ci lasciamo abbattere da questo triste spettacolo arriva un'anziano che, con la schiena piegata dagli anni passati ad accudire la terra, ci saluta e ci dice: God is angry.
Come vorrei poter parlare
la sua lingua per spiegargli che tutto questo disastro non è una
punizione divina ma è il frutto del menefreghismo di qualcuno che ha deciso di
distruggere il pianeta e il suo fragile ecosistema solo per i propri
egoismi, come se il futuro del mondo non lo riguardasse. Ce ne
andiamo ma l'umore non migliora. Parlando con la gente scopriamo che
l'unico commercio possibile è quello della legna, del carbone e
della sabbia. Non c'è nient'altro da barattare!
E così alle
prossime piogge non ci sarà più nulla da irrigare, non ci saranno
più piante a trattenere l'acqua. Incontriamo una donna vedova con i
suoi numerosi figli, anche lei per ora fa del carbone con gli alberi
tagliati dal suo terreno. Le chiediamo cosa farà quando non ci sarà
più legna da tagliare? Ci risponde che andrà a prendere l'acqua per
chi non riesce ad andarci da solo; sono quattro ore di cammino tra
andata e ritorno dal fiume più vicino. Ci saluta con un bel sorriso
e tanto calore. Ci spostiamo per andare a visitare l'ultima zona.
Lungo la strada vediamo dei bidoni per l'acqua vuoti in fila ad
attendere l'arrivo delle cisterne, stanno in fila loro per i loro
proprietari perché potrebbe trattarsi di ore di attesa se non di
giorni. Non molti camion vanno ancora in quelle zone perché non
avrebbero nulla da portare via: sarebbe un viaggio a vuoto. I laghi
sono secchi, i fiumi anche. All'arrivo della nostra macchina tutti
escono di corsa dalle case per vedere se sono arrivati dei
rifornimenti. Scusateci, siamo solo noi. Solo i bambini mantengono
l'entusiasmo, non capita tutti i giorni di vedere sei bianchi.
Abbiamo trovato un
pianeta stanco, malato, sofferente, proprio dove la gente non l'ha
mai sfruttato ne inquinato... ingiusto! E' dovere di tutti proteggere
la madre terra, curarla, lottare per lei... ha bisogno del nostro
amore. Devo iniziare a fare la mia parte!
Giulia
alle
22:09
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Giulia Caraffi,
Nairobi,
SCE2016
sabato 12 novembre 2016
Il quotidiano sfida
Grinta.
Questa parola riassume il giusto stato d'animo con cui ci sembrava
necessario partire. Dovevamo iniziare questa avventura con carica e
coraggio perché le sfide che avremmo affrontato ne avrebbero
richiesto parecchio. Pensavamo ai numerosi ostacoli che avremmo
incontrato sul nostro cammino: una nuova lingua da imparare, un
contesto socio-culturale diverso da comprendere e in cui ambientarsi,
una nuova realtà lavorativa in cui inserirsi. Immaginavamo la fatica
nel trovare attività da fare con le adolescenti e con le ragazze
madri, la pazienza nel costruire rapporti, il rischio di qualche
aspettativa delusa. Tutte sfide degne solo dei più valorosi. Eppure
come spesso accade, la vita ti riserva delle sorprese, infrangendo le
seppur elevate immagini che ti eri costruito. Le lotte che ci sono
state chieste qui, nei primi giorni dal nostro arrivo a Chisinau, non
hanno avuto a che fare con nobili cause ed intenti. Una coppia di
vicini di casa rumorosi, che ogni mattina alle cinque, se eravamo
fortunate alle sei, ti tiravano giù dal letto con grida e sfuriate
poco confacenti anche agli sposi più scontrosi. Un brutto incidente
capitato alla mia compagna Jessica, quasi investita da un autista
mentre attraversava la strada sulle strisce pedonali. La pazienza nel
sopportare la maleducazione dei vicini e qualche ora di sonno
arretrato, la fatica nelle limitazioni e nelle difficoltà che un
infortunio ti procura, l'impotenza di fronte a una realtà che non
puoi del tutto controllare; queste sono le sfide più ardue che sono
chieste a me e a Jessica. Così ci troviamo a farci forza e coraggio
nell'andare a fare la spesa, nel prendere l'autobus, nel salire su
marciapiedi alti privi di rampe con le stampelle, nelle mille insidie
che questa città riserva a chi ha una disabilità; nella paura di
attraversare strade poco illuminate, in cui sfrecciano macchine
dall'andamento un po' spericolato e in cui dunque il pedone non ha
vita facile. Così mi viene in mente un'espressione di una canzone di
Giò Sada, cantante che, da fissata di X Factor quale sono, conosco
bene: le sfide più ostiche che la vita spesso ci pone dinanzi sono
le nostre "battaglie normali".
alle
21:40
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Arianna Fioretto,
Moldova,
SCE2016
Opportunità!
Provaci tu a raccontare cos'è Haiti.
Io sto facendo una fatica enorme, davvero.
Da quando sono arrivata le giornate sono state piene e davvero molto intense, tanto che non ho avuto molto tempo per fermarmi a pensare a quello che sto vivendo, ovvero... un'opportunità incredibile.
Se dovessi cercare una parola per descrivere Kay Chal, il centro diurno presso il quale presto servizio ogni giorno, direi che è proprio...Opportunità.
Kay Chal è stato fondato nel 2010 dalle Piccole Sorelle del Vangelo. Quello che so è che, da una riunione fatta nel quartiere con poche sedie e poche persone, è nato questo meraviglioso progetto di cui oggi faccio parte.
Le piccole sorelle hanno fatto una scelta che può sembrare dura e cioè quella di non dare cibo nel centro, Kay Chal nasce per educare e per permettere ai giovani di ritrovarsi e passare del tempo insieme in modo sano, come alternativa alla strada.
È difficicile in un primo momento capire questa cosa...ma come? In una delle baraccopoli più povere del mondo un centro come questo che non da cibo a bambini e giovani che mangiano un giorno sì e uno no se va bene??
La risposto è che a Kay Chal si va per fare altro...e la cosa meravigliosa è che tutti i bambini e i giovani che frequentano Kay Chal lo fanno per il gusto di farlo, per la gioia di stare con gli altri in un posto che sia sicuro, per il piacere di creare relazioni autentiche e significatiche, per imparare la gratuità del servizio e la volontà di darsi al prossimo senza avere nulla di materiale in cambio.
Ci ho messo dieci giorni a capire questo e a realizzare che ai giovani Haitiani non serve il “bianco” che gli dia il piatto di riso, a loro serve qualcuno che gli dia un'Opportunità!
Ecco, Kay Chal è questo.
Kay Chal è Opportunità per i bambini Restavek, lontani dalle loro famiglie e al servizio di altre famiglie presso le quali svolgono i lavori domestici fin da molto piccoli.
Kay Chal dà loro la possibilità di essere bambini come tutti gli altri, di avere un'istruzione e di vivere l'infanzia, sacrosanto diritto di ogni bambino.
Kay Chal è Opportunità per giovani maestri della scuola della mattina e per i giovani animatori del pomeriggio, cresciuti in una baraccopoli con nulla se non la loro dignità e la loro voglia di riscatto ma che oggi possono dire di avere qualcuno da cui andare quando le cose si fanno troppo dure.
Kay Chal è opportunità per me, che oggi sono qui e tento di scoprire un Paese che vive una complessità enorme al suo interno.
Kay Chal è opportunità per me che vedo ogni giorno come la vita vada avanti nonostante tutto.
A tal proposito...un animatore in questi giorni mi ha insegnato una canzone haitiana della quale non ricordo il testo ma ricordo più o meno il messaggio di fondo.
La canzone raccontava di quanto sia difficile la vita in questo paese in cui ci sono persone che non hanno nulla, ma la speranza che le cose cambino prima o poi c'è,
“perché il sole sorge comunque ogni giorno e sorge per tutti allo stesso modo, sia per chi ha tutto si per chi non ha nulla.”
A presto.
Silvia
Io sto facendo una fatica enorme, davvero.
Da quando sono arrivata le giornate sono state piene e davvero molto intense, tanto che non ho avuto molto tempo per fermarmi a pensare a quello che sto vivendo, ovvero... un'opportunità incredibile.
Se dovessi cercare una parola per descrivere Kay Chal, il centro diurno presso il quale presto servizio ogni giorno, direi che è proprio...Opportunità.
Kay Chal è stato fondato nel 2010 dalle Piccole Sorelle del Vangelo. Quello che so è che, da una riunione fatta nel quartiere con poche sedie e poche persone, è nato questo meraviglioso progetto di cui oggi faccio parte.
Le piccole sorelle hanno fatto una scelta che può sembrare dura e cioè quella di non dare cibo nel centro, Kay Chal nasce per educare e per permettere ai giovani di ritrovarsi e passare del tempo insieme in modo sano, come alternativa alla strada.
È difficicile in un primo momento capire questa cosa...ma come? In una delle baraccopoli più povere del mondo un centro come questo che non da cibo a bambini e giovani che mangiano un giorno sì e uno no se va bene??
La risposto è che a Kay Chal si va per fare altro...e la cosa meravigliosa è che tutti i bambini e i giovani che frequentano Kay Chal lo fanno per il gusto di farlo, per la gioia di stare con gli altri in un posto che sia sicuro, per il piacere di creare relazioni autentiche e significatiche, per imparare la gratuità del servizio e la volontà di darsi al prossimo senza avere nulla di materiale in cambio.
Ci ho messo dieci giorni a capire questo e a realizzare che ai giovani Haitiani non serve il “bianco” che gli dia il piatto di riso, a loro serve qualcuno che gli dia un'Opportunità!
Ecco, Kay Chal è questo.
Kay Chal è Opportunità per i bambini Restavek, lontani dalle loro famiglie e al servizio di altre famiglie presso le quali svolgono i lavori domestici fin da molto piccoli.
Kay Chal dà loro la possibilità di essere bambini come tutti gli altri, di avere un'istruzione e di vivere l'infanzia, sacrosanto diritto di ogni bambino.
Kay Chal è Opportunità per giovani maestri della scuola della mattina e per i giovani animatori del pomeriggio, cresciuti in una baraccopoli con nulla se non la loro dignità e la loro voglia di riscatto ma che oggi possono dire di avere qualcuno da cui andare quando le cose si fanno troppo dure.
Kay Chal è opportunità per me, che oggi sono qui e tento di scoprire un Paese che vive una complessità enorme al suo interno.
Kay Chal è opportunità per me che vedo ogni giorno come la vita vada avanti nonostante tutto.
A tal proposito...un animatore in questi giorni mi ha insegnato una canzone haitiana della quale non ricordo il testo ma ricordo più o meno il messaggio di fondo.
La canzone raccontava di quanto sia difficile la vita in questo paese in cui ci sono persone che non hanno nulla, ma la speranza che le cose cambino prima o poi c'è,
“perché il sole sorge comunque ogni giorno e sorge per tutti allo stesso modo, sia per chi ha tutto si per chi non ha nulla.”
A presto.
Silvia
alle
18:13
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Haiti,
Kay Chal,
SCE2016,
silvia motta
giovedì 10 novembre 2016
Scatta il cantiere: siamo tutti sulla stessa barca
Siamo giunti alla nostra ultima categoria di foto vincitrici: SIAMO TUTTI SULLA STESSA BARCA!
1° CLASSIFICATO
Nicaragua - Sara Papasodaro |
2° CLASSIFICATO
Haiti - Matteo Bodini |
3° CLASSIFICATO
Kenya Mombasa - Angela Moscovio |
4° CLASSIFICATO
Marocco - Michela Pagani |
5° CLASSIFICATO
Moldova - Anna Curelli |
mercoledì 9 novembre 2016
Scatta il cantiere 2016: sconfinare
Presentiamo ora le foto che hanno into nella categoria SCONFINARE!
1° CLASSIFICATO
Bianco, nero, gialli! - Haiti - Francesco Canella |
2° CLASSIFICATO
Finestre - Georgia - Jessica Fuschillo |
3° CLASSIFICATO
Hamdulillah è già venerdì - Marocco - Caterina Verzotti |
4° CLASSIFICATO
Gli stessi colori - Kenya Mombasa - Elena Caselli |
Potrei dirvi … invece vi dirò
Prima di partire immaginavo di
arrivare ad Haiti e iniziare subito a scrivere un sacco di pagine, di getto,
colto dalle emozioni e dalle sorprese.
Invece eccomi qui, a una
settimana esatta dalla mia partenza, a buttar giù queste prime righe, prime
riflessioni e pensieri di un anno che prevedo sarà intenso, difficile, forte,
bello.
Bhè, per cominciare potrei dirvi
molte cose su Haiti, su ciò che ho visto e sentito, sugli odori respirati …
Potrei dirvi che dall’aereo in
fase d’atterraggio non si vedevano altro che baracche e i tetti di lamiera
luccicavano come stelle, solo situate dalla parte sbagliata del cielo. Invece
vi dirò quanto sia bello il manto blu che mi culla prima di addormentarmi, con
migliaia di astri che mi sfiorano.
Potrei dirvi di come l’odore di
smog impregna le strade di Port au Prince. Invece vi dirò come sono
affascinanti i tap tap in corsa,
gremiti di gente, colorati e dipinti con passione da diversi artisti,
raffiguranti Messi, Cristiano Ronaldo e l’immancabile Gesù.
Potrei dirvi di come sia stato
macabro, inquietante e strano essere in un cimitero, unici bianchi, durante la
festa dei morti (degli spiriti!direbbe un vodooista per bene) e osservare,
sperando invano di non dare nell’occhio, i rituali vodoo. Invece vi dirò quanto
sia stato bello e interessante entrare in questo spaccato di tradizione e
religione, sentirsi testimoni di qualcosa di unico al mondo, speciale.
Potrei dirvi di come sia stato claustrofobico
entrare in Citè Jeremie, la bidonville vicina a Kay Chal, di come siano sporchi
e vissuti i suoi vicoli. Invece vi dirò come sia stato impattante entrare e
vedere tutti questi bambini che correvano e salutavano con grandi sorrisi il loro animatore, che ci
accompagnava.
Potrei dirvi di come gli haitiani
spesso sulla strada siano scorbutici. Invece vi dirò come a un sorriso
accennato rispondano sempre con un sorriso ancora più grande, con dei denti
bianchissimi e ben curati, dimenticando la smorfia precedente.
Potrei dirvi di come sia un
peccato vedere suor Luisa vivere in casa da sola mentre porta avanti la sua missione. Invece vi dirò come sia fantastico e
ispirante vedere la sua energia, l’amore che emana, i suoi sorrisi.
Potrei dirvi di come gli haitiani
siano un popolo difficile, con delle prospettive difficili. Invece vi dirò
come, durante la messa della misericordia allo stadio nazionale, l’arcivescovo
abbia ispirato la gente per un futuro migliore, un popolo che ha voglia di
riscatto, che lo applaudiva con forza, che ballava, tutti assieme, cantando il
“magnificat”, con un’energia tale da mettermi la pelle d’oca, scottati da un
sole cocente.
Potrei dirvi di come la gente qui
viva in uno stato di povertà degradante, di come alcuni ragazzi che incontro
ogni giorno a Kay Chal non riescano a godere di un pasto quotidiano. Invece vi
dirò di come un ragazzino di 17 anni , seppur con poche energie, seppur non
sempre abbia cibo, seppur non abbia una famiglia alle spalle che lo segue, ogni
pomeriggio si rechi al centro per fare l’animatore, aiutare i più piccoli,
insegnar loro a fare qualche braccialetto, essere un esempio, un fratello
maggiore.
Infine, potrei semplicemente
concludere e dirvi come Haiti sia un
paese devastato, povero. Invece vi dirò che Haiti è un paese bello, ricco, e io
sono contento di essere qui.
alle
04:34
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