mercoledì 24 settembre 2014

Milano: TRA RICCHEZZE E POVERTA’

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Milano, una città ricca di paradossi, proprio come nella Londra vittoriana in cui visse Dickens.
Una Milano dove sono in atto i preparativi per l’expo, nelle sue periferie compare una grande novità, una luce nuova.
Otto giovani e un prete attraversano la città, arrivano alla periferia della Comasina dove hanno scelto di vivere per due settimane.
Attenzione, però! La cosa straordinaria non eravamo noi, ma era il messaggio che volevamo portare. Era quello che ci stava dietro: a fare un oratorio gratuito, il fatto di vivere due settimane insieme e di conoscere la città di Milano in un modo diverso dal solito.
Se vi fosse capitato di passare di lì avreste trovato sul cancello dell’oratorio un bel cartello “Benvenuti! Aperti per ferie”. 
Questo cartello, questa scritta “benvenuti” non la troviamo 
nemmeno più sugli zerbini delle case. Una parola poco sentita di recente! Questo cartello ha attirato un po’ di bambini e genitori che passavano di li.
Eppure quella era Milano! Era una periferia, dove spesso non ci sono speranze, luoghi dimenticati, luoghi in cui pochi passano e attraversano la città col desiderio di restarvi. Dove la gente attende una cosa straordinaria che sembra non arrivare mai a rompere la monotonia. Uno di quelli era Gesù che sceglie di abitare nelle periferie umane, sceglie di entrare nelle nostre storie, sceglie di accompagnarci nel dolore e nelle fatiche. Chi entra in periferia non tornerà certamente a casa come prima! LA POVERTA’ TI ARRICCHISCE!  
“Lo vide e ne ebbe compassione. Gli si fece vicino, gli fasciò le ferite…”     
“Chi ascolta voi, ascolta me”
 “Si recarono da lui portando un paralitico, sorretto da quattro persone”
Queste ed altre frasi ci hanno accompagnato nelle due settimane. Queste frasi le abbiamo vissute.
Ci siamo interrogati sul nostro sguardo, sulla capacità di vedere: cosa vedo dell’altro? Come lo tratto? IL POVERO VIENE TRATTATO COME UN RICCO.
Cosa rappresenta l’altro per me? Sul nostro modo di ascoltare: cosa ascolto quando ascolto gli altri?
Quattro amici scelgono di portare un loro amico da Gesù e fanno di tutto, scoperchiano persino il tetto di una casa! Un desiderio di accompagnare chi fa più fatica davanti a Gesù. Questo lo trovo bellissimo! Poter arrivare insieme, poter essere davvero fratelli!
Prima parlavo di luce nuova, mi è piaciuto un sacco poter attraversare le strade di quel quartiere, frequentare i negozi sul posto e incontrare i ragazzi conosciuti nell’oratorio!
Erano ragazzi con difficoltà economiche, con problemi familiari, oppure immigrati in parte cinesi che vivevano nel quartiere della Comasina e vicinanze. Erano ragazzi che avevano bisogno di essere ascoltati, a mio parere, ed era molto bello poter parlare con loro e ascoltarli. Il clima che si è creato ha reso possibile tutto ciò. Infatti coi circa 25 ragazzi presenti ogni giorno è stato possibile creare un vero clima familiare e fraterno. Ma era ancor più bello poterli valorizzare e trattarli nel modo in cui si desidera essere trattati.
Abbiamo lasciato un grande segno in quel quartiere: la gente difficilmente viene ascoltata, le famiglie del quartiere desideravano davvero darci una mano chi con la merenda, chi con altre proposte. Abbiamo smosso un po’ la realtà! È stato molto arricchente poter incontrare un quartiere così, delle persone così e credo proprio abbia fatto molto bene pure a loro potersi conoscere tra loro.

Milano, non sembra una vacanza essere stati a Milano. Invece per noi è stata una vacanza!! Lo era eccome, in posto lontano, ma anche vicino!!



Cecilia

martedì 23 settembre 2014

Haiti....mesi anpil!!!!

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Non fai in tempo ad atterrare
e già ti senti soffocare.....
Sei sudato tutto il dì
ma felice di esser qui!!!!
E se il creolo non sai parlare
non ti devi preoccupare....
di certo Fanfan te lo saprà insegnare!!!
  
Tra canti, balli e divertimento
la fatica si scorda in un momento.
Abbracci e sorrisi a tutte le ore
son queste le cose che ci rimangon nel cuore!!!!
E anche se da un mese siamo partiti
sarà difficile dimenticare Haiti!!!!

-Cantieristi 2014-

domenica 21 settembre 2014

Nicaragua: I pensieri scorrono...

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I pensieri scorrono nella mia mente come scorrono le nubi su questo manto sfumato di cielo... 


Pensieri melodici come la musica sprigionata in qualsiasi angolo di questo paese, luminosi come il sole caldo che ogni mattina ci abbraccia sorridente al nostro risveglio, velati come i dubbi, le domande e le perplessità che mi aiutano a riflettere. 
Pensieri intensi che fanno accelerare il battito del cuore come un corridore negli ultimi metri che lo separano dal traguardo.


In questo periodo il cuore accelera spesso grazie alle incredibili persone incontrate e conosciute lungo il cammino, ai ragazzi di Nueva Vida che ogni giorno sento sempre più vicino e grazie ai primi frutti che iniziano a crescere e a maturare su un terreno a volte fertile come il limo del Nilo ed, altre volte, secco e duro come le strade del barrio perennemente abbagliate dai raggi forti del sole.

Eppure, su queste stesse strade, tra la terra, la sporcizia, le pietre, le buche, l'agua negra delle case, la lamiera e gli scarichi di qualsiasi tipo, crescono con rispettosa riservatezza delle pianticelle... 


Impossibile sapere quanto cresceranno, ma possiamo fare l'impossibile per continuare con passione ad annaffiarle e a prendercene cura. 
Solo il tempo saprà dirci quanto saranno riuscite ad ancorarsi al terreno con radici forti e profonde e se avranno avuto la forza di resistere alle numerose intemperie che la vita le sottopone.

Continuiamo il nostro servizio con la certezza che il "semplice" fatto di aiutare a sostenerle ci sostiene e, qualora perissero, non avremmo comunque di che ringraziare per la passione, l'amore e la felicità che ci hanno tirato fuori nell'atto del conoscerle, del sostenerle, del viverle.


Non si cambia il mondo, ma puoi cambiare te stesso... 
Forse solo ora inizio a comprendere veramente il significato di questa frase. 
Forse.

" Il cuore rallenta la testa cammina 
in quel pozzo di piscio e cemento 
a quel campo strappato dal vento 
a forza di essere vento... "

(Khorakhané, Fabrizio De André)


Un abbraccio forte, sorridente e sincero,



Teo! :)

venerdì 19 settembre 2014

Bolivia: Cerca nel cuore

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A quasi un mese dal mio ritorno, mi trovo con me, una volta tanto, a fare un attimo il bilancio su quello che è stata la mia esperienza, ciò che mi ha insegnato l’esperienza del cantiere, e poi come io possa portarla anche qui, a “casa”.
Il mio primo incontro col Sud America avviene con quello che mi piace definire il suo cuore (per chi non lo sapesse la Bolivia occupa una posizione centrale) ed ecco, non penso sia stato proprio un caso. In un mese ho potuto cogliere la brulla bellezza di terreni incolti, cime andine inabitate, foreste amazzoniche che il fiato te lo tolgono (letteralmente) ma, soprattutto, ho incontrato persone, scrutato visi, riconosciuto sorrisi e tenuto mani.


Torno a casa con le mani un po’ più sporche, la bocca che tende sempre a incrinarsi e protendere in un sorriso, gli occhi più pieni, le orecchie più tese, l’animo che freme, la testa piena d’iniziative, le gambe che non ne vogliono sapere di stare ferme...e il cuore pieno.


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Giorgia

giovedì 18 settembre 2014

Bolivia: Intervista a Mons. Tito

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Tra le mille esperienze indimenticabili che abbiamo vissuto in Bolivia è sicuramente da ricordare quella dell’incontro con Mons Tito Solari, arcivescovo di Cochabamba. Un uomo coraggioso che non ha ancora smesso di lottare per il bene del popolo boliviano.
Gli abbiamo chiesto di raccontarci la Bolivia (Poco pretenziosi J).
Ecco quello che ci ha detto:
E’ difficile parlare della Bolivia perché, in primis, la concezione di alcune parole come termini di confronto è radicalmente diversa: ad esempio il termine “abitazione” per un boliviano non è necessariamente un edificio in muratura dotato di stanze, determinati servizi e comfort; “casa” è una stanza in cui si svolgono tutte le attività domestiche (mangiare, dormire, lavorare).
L’attuale situazione del paese è dovuta ad un processo storico di evoluzione socio-politica, la quale da una democrazia corrotta porta ad un sistema quasi totalitario.



Essendo in Bolivia da un paio di settime abbiamo solo cominciato a conoscere il popolo boliviano ma quello che ci risulta più difficile da comprendere è la situazione politica: quali sono i pilastri fondamentali della politica di Evo Morales?

Il governo di Evo è basato sull’ideologia socialista, in particolare quella di Gramsci, più che su un vero e proprio progetto. E' legato a doppio filo con il bene fondamentale del paese, non si può assolutamente dire che sia tutto positivo o tutto negativo.
E' difficile valutare alcune novità introdotte dall'attuale governo poiché molte hanno portato vantaggi alla popolazione, inoltre la forza di Evo sta nel consenso che ha saputo costruire e mantenere in questi anni. In particolare il leader ha creato forti alleanze che al contempo gli permettono di controllare le forze militari e di polizia, i giudici e i maestri.
ESERCITO e POLIZIA:
Per quanto riguarda l’esercito e la polizia, il governo ha rinnovato la gerarchia mandando in pensione i vecchi generali che stavano al potere da generazioni,sostituendoli  con militari più giovani, scelti ovviamente per la fedeltà al partito.
GIUDICI:
Il governo ha il pieno controllo anche sulla giustizia anche se non secondo la legge. I giudici, pur essendo stati eletti  attraverso un referendum, sono stati prima selezionati dal partito del MAS (partito di Maggioranza di Evo Morales). Il popolo boliviano non ha chiuso gli occhi di fronte a questo: ha usato "l'arma" del voto nullo; purtroppo questa è risultata inutile.
Allo stato è perciò concesso di utilizzare il sistema giuridico come arma di repressione e controllo. Le persone che contrastano il governo vengono perseguite attraverso numerosi ed estenuanti processi, Tito stesso ne ha subiti sette.
MAESTRI:
Uno degli strumenti più forti del governo di Evo è sicuramente quello dell’istruzione, fondamentale per inculcare l’ideologia nella popolazione. Per questo motivo il ministero dell’istruzione controlla direttamente la formazione dei maestri obbligandoli a seguire un piano didattico preimpostato ed esigendo una presenza assidua. Questa impostazione ha aumentato notevolmente il livello di alfabetizzazione del paese nonostante la mancanza di pluralità ideologica. Inoltre ha reso molto più regolare la scuola; senza questa dura imposizione le lezioni venivano spesso cancellate, ora è garnatita una frequenza reale, non più fittizia.

Stando in Bolivia ci siamo scontrati con una realtà povera: le scelte economiche del governo come affrontano questo? Quali sono stati i cambiamenti e le evoluzioni dell’economia del paese?

La Bolivia possiede molte risorse naturali quali idrocarburi e litio e grazie a dinamiche internazionali non necessita di aumenti di produzione, poiché è la finanza occidentale che stabilisce il prezzo delle materie prime. Il costo delle materie prime è in crescita nonostante la crisi, questo fenomeno è di grande beneficio per l’economia del paese perché porta a una maggiore disponibilità di capitale. I capitali non influenzano però l'economia reale, il maggior beneficiario dei proventi dell'esportazione di materie prime è il governo essendo le risorse di proprietà dello stato.

Su un trufi, con un autista molto loquace, siamo riusciti a parlare della situazione in Bolivia; alla nostra domanda: "Come si sta in Bolivia da quando c'è il governo Morales?" l’uomo ci ha risposto che lui si sente libero ed è contento dell'attuale presidente. Ma qual è il reale rapporto della popolazione con il governo? La popolazione è soddisfatta della politica?

La situazione politica democratica non può essere paragonata a quella delle democrazie occidentali: in parlamento vi sono rappresentanti dei gruppi di potere sociale e non della popolazione, ad esempio vi sono rappresentanti dei lavoratori statali come degli autisti di trufi abusivi.  Inoltre ogni forma di opposizione viene neutralizzata con diversi mezzi, uno è la persecuzione giuridica.
Tuttavia la gente continua e continuerà a votare Evo perché ha un esteso numero di collaboratori e sostenitori. Ha garantito una pensione agli anziani, ha assicurato assistenza sanitaria gratuita a bambini minori di 5 anni, alle donne incinte e alle persone con più di 65 anni.
Bisogna tener conto che  il miglioramento dell’istruzione ha creato una generazione di giovani molto studiosa e preparata che costituisce la coscienza civile del paese. Incanta e stupisce la voglia di migliorare che hanno gli studenti universitari, che spesso sono già lavoratori. Lo studio e l'impegno sono la via per un futuro migliore e di questo sono più che consapevoli.

La popolazione,soprattutto quella rurale, crede fortemente in Morales perché il leader è molto presente nella vita delle comunità, ne conosce i bisogni e cerca di soddisfarli: “BOLIVIA CAMBIA, EVO CUMPLE”.

Grazie anche alla nazionalizzazione della maggior parte dei servizi, inclusi i mezzi di comunicazione, fa si che vi sia una presenza pervasiva del governo in tutti gli aspetti della società che garantisce di fatto un supporto collettivo.

Siamo stati sommersi da una carrellata di notizie, e forse abbiamo iniziato a vedere le dinamiche Boliviane in modo diverso...ma soprattutto abbiamo conosciuto la forza e la determinazione di un uomo che nonostante i 75 anni e la malattia non ha mai smesso di sperare: grazie Tito!

I cantieristi Bolivia 2014

mercoledì 17 settembre 2014

DJIBOUTI, L'ENERGIA CHE SI SCATENA IN UN CONTATTO.

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All'inizio non capivo. Mi chiedevo “ma perché è così difficile raccontare che cos'è stato Djibouti per me? Perché dentro ho duemila cose, ma se prendo foglio e penna non esce nemmeno una parola?”. Ad un certo punto è stato tutto chiaro: è così complicato perché Djibouti è stata una di quelle esperienze vissute “a cervello staccato”, che l’attendi per mesi, ma non ti stai a fare troppe aspettative, hai semplicemente tanta curiosità e tanta voglia di partire. E poi quel giorno arriva e in realtà ti prende anche un po’ alla sprovvista, che quasi non ti senti pronta, che di sicuro in valigia non ci hai messo qualcosa, che pensi “cavoli, con tutto il tempo che avevo potevo iniziare prima a preparare le cose”, però non importa, l’importante è che finalmente si parte. E poi arrivi lì, quasi catapultato, e ti ci immergi in quel mondo, ti lasci invadere, ti fai scuotere un po’ e, senza nemmeno rendertene conto, è già ora di tornare. E di pensare, in quel momento lì, non ne hai proprio voglia, perché l’unico pensiero che invade insistentemente la tua mente è la certezza che quelle tre settimane ti mancheranno da morire e che te le porterai dietro sempre, in tutto. Djibouti è una di quelle esperienze che semplicemente ti vivi fino in fondo, in cui di razionale c’è ben poco, perché vieni interamente travolto dalle emozioni. Ecco perché è tanto difficile: perché le emozioni non le spieghi a parole, o meglio, non c’è modo di spiegarle, le senti, le vivi e basta. E allora, pur consapevole che il risultato sarà parziale, incompleto, impreciso, insoddisfacente, ho deciso di scrivere perché sono curiosa di vedere che forma prendono le sensazioni, perché vorrei provare a trasmettere almeno un po’ dell’entusiasmo che questa esperienza mi ha lasciato e dare un’idea di ciò che è stato Djibouti per me.

                                    

Djibouti per me è leggerezza. È la spensieratezza di balli che buttano giù muri e di partite di pallone sulla spiaggia che fanno bene al cuore e profumano di libertà. È il fregarsene dei piedi sporchi di terra e delle magliette fradice di sudore. È la facilità con cui ci si sente a proprio agio lì, che ti viene proprio naturale essere te stesso in tutto. È l’instaurare un contatto con un’immediatezza ed una semplicità ormai rare, che se mentre cammini per strada vedi un bambino e lo saluti o gli sorridi o gli mostri qualche foto dalla tua macchinetta, già un po’ la sua attenzione l’hai catturata. È la serenità che ti trasmette chi, privo di qualsiasi certezza, è costretto a non pensare al domani, ma sempre sorride.

Djibouti per me è consapevolezza. È rendersi conto un po’ di più di cosa voglia dire vivere per la strada e poter fare affidamento solo sulle proprie forze, fin da bambini. È capire quanto conta avere un’opportunità nella propria vita. È impattare con una realtà dura, fatta di miseria, violenza, degrado, che prima di starci a contatto non immagini in tutta la sua asprezza; una realtà difficile da accettare, ma con la quale fai i conti e dalla quale impari a non essere indifferente. Djibouti non è che ti cambia la vita, perché poi torni e ti rituffi nella routine di sempre, però ti fa cambiare la prospettiva da cui guardi, la lente attraverso cui filtri, l’attenzione che poni a ciò che ti circonda.

Djibouti per me è rispetto. È stima verso quei bambini, per i quali la maestra non è quella della scuola, che la maggior parte di loro nemmeno può frequentare; la loro maestra di vita è l’esperienza, che ha insegnato loro ad affrontare ogni giorno con forza e tenacia.

Djibouti per me è gratitudine. È gratitudine verso Zac, ragazzo gentile, dolce e disponibile, perché era lì con me, ad aiutarmi, mentre io tentavo, invano, di far rispettare la fila a una ventina di bambini urlanti, che impazzivano alla vista di un’altalena e praticamente mi assalivano ad ogni “cambio turno”. È gratitudine verso Ahmed, che il giorno della partenza mi guardava e a gesti provava a farmi capire che noi Cantieristi quel pomeriggio ce ne saremmo andati, mentre lui restava lì, senza una mamma, senza un papà, senza nessuno: io non ho saputo cosa dire, sono rimasta come disarmata e l’unica cosa che, col cuore, sono riuscita a fare è stato abbracciarlo, ricevendo in cambio un sorriso sincero, come a dire “non importa, non preoccuparti, questo mi basta”. È gratitudine verso ognuno di quei bambini, perché non mi hanno fatto pesare quel senso di impotenza che io invece ho provato nei loro confronti, perché mi hanno accettata, anche se la mia permanenza lì era a termine, che poi io la mia vita ce l’ho altrove e quindi non posso saperlo fino in fondo cosa vuol dire vivere così ogni santo giorno. Loro sono stati capaci di prendere quel poco che potevo offrire loro, senza pretese e, anzi, contraccambiando con i loro sorrisi e i loro gesti attenti e veri.

                                              

Djibouti per me è dedizione. È l’azione silenziosa e tenace di chi crede nel cambiamento e lo persegue con passione, impegno ed umiltà, di chi un mondo più giusto, nel suo piccolo, prova a realizzarlo concretamente. È la soddisfazione nelle voci delle suore di Ali Sabieh mentre ti raccontano delle attività a scuola con i bambini del villaggio e ti dimostrano che credere in ciò che si fa è il motore più potente che ci sia. È il lavoro quotidiano di tante piccole -ma preziose- gocce nell'oceano.

Djibouti per me è gruppo. Sono i ragazzi con cui sono partita e che ringrazio, perché penso sia stata davvero una gran fortuna affrontare questa esperienza con loro. Da subito c’è stata sintonia, nata con naturalezza e spontaneità estreme; per tre settimane il gruppo è stato una sicurezza, una dimensione in cui sentirsi supportati, ascoltati, accolti, a proprio agio. Un gruppo che ricorderò per tutte le risate che mi ha fatto fare: la scodella, Jean Vajean, una prugna che in realtà è un Picasso originale, l’acqua del risciacquo del bucato, la camicia verde mela, la crema al timo, i viaggi folli nel pick-up, il letto sfondato, il verso della foca che poi è uguale a quello del gabbiano, “goorbye, I’m fine”, le capre sugli alberi e i gatti che volano, gli interminabili giri di saluti delle Sisters, il salviettone, la “schiscètta”, le vegliarde che devono prendere l’aereo e tornare a casa, lo sgomento, i gavettoni, Irene che è stata in Gambia, Oristano, i campioni mondiali di autoscatto e altre ottomila cose che per i più non significheranno assolutamente niente, ma che ai miei compagni, leggendole, un sorriso probabilmente l’hanno strappato.

                                     

Djibouti per me è contatto: con un Paese tanto distante eppure ormai così parte di me, con quei bambini, con i miei compagni di avventura, con me stessa. Sì, Djibouti per me è contatto. Ed è energia. È l’energia che si scatena in un contatto.


Erika


martedì 16 settembre 2014

LIBANO: A cuore scalzo

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“Ohana vuol dire famiglia. E famiglia vuol dire che nessuno viene abbandonato o dimenticato.”

Questa era la frase culto di Lilo & Stitch e perdonate la mia giovane età se posso ancora citare un cartone animato.

Un vecchio proverbio dice che non si può scegliere la propria famiglia. È il destino che sceglie per te. E anche se non ti piace, se non la ami o non la capisci… Ti devi arrangiare.
Nella mia prima adolescenza ho seguito un’altra scuola di pensiero: la famiglia in cui si nasce è solo un punto di partenza. Ti nutre, ti veste, si prende cura di te finché non sei pronto ad andare in giro per il mondo a cercare qualcosa di tuo.
Così per molti anni sono stata lieta della mia seconda famiglia: coloro che, per scelta, erano al mio fianco giorno dopo giorno.

Ora sono tornata a mettere nuovamente in discussione questo sacro concetto ed il significato stesso della parola “famiglia”.

Rincasata dopo queste tre intensissime settimane di cantiere ho provato a mettere ordine al groviglio di emozioni che avevo dentro ed una è affiorata subito, prepotente, sulle altre.
Io non mi sento sola. Perché Ohana significa che nessuno viene lasciato indietro.

E così se sei triste perché il tuo ragazzo non ti chiama, diventa compito mio farti riscoprire il buonumore: ogni sorriso è importante.

Se senti il bisogno di qualcuno che faccia follie con te, io posso essere la pazza che ti tiene per mano.

Se capitano serate in cui si ha solo voglia di stendersi sul proprio materasso e cancellare il mondo, il mattino dopo ci si saluta con un mega abbraccio.

Se è il tuo compleanno non importa quanto stanca io sia, vengo a lavare i piatti al posto tuo con un sorriso spaziale.

Ohana vuol dire svegliarsi alla 6.30 del mattino per poi ripiombare in un letto che sicuramente non è il tuo, ma con l’assoluta certezza che qualcuno che ti coccoli prima di svegliarti lo troverai sempre.

È il “Che figata di idea che hai avuto: realizziamola!”

Sono i discorsoni che partono così all’improvviso e che ti smuovono dentro. Allora si afferra che il concetto di ricchezza nella diversità non è solamente una questione di retorica, bensì sostanza purissima che ti smuove le cellule e ti spinge a voler vivere, sempre un po' di più.

È il “Ciò che è mio, è tuo” ripetuto per qualsiasi cosa, così che alla fine del cantiere anche il mio cuore era un po’ condiviso.

Ohana significa che poco a poco ci si lascia avvolgere dalle storie degli altri, che se ci sono delle cose che pesano dentro, quattro spalle per sopportarle sono meglio di due. E se le spalle sono 26… Beh fate voi i calcoli!

Significa lasciare che lo strato di timidezza si sciolga poco alla volta per lasciar spazio a ciò che si è veramente, senza vergognarsi troppo.

E quando le parole non bastano intervengono i colori. Accesi, come quelli di tanti post-it colorati.

E i suoni. Come le stonature su Tiziano Ferro mentre si preparano le bruschette.

E le emozioni. Come l’abbraccio un po’ invadente che forse non stavi cercando ma che, arrivato, è riuscito a sorprenderti.

Qualcuno potrebbe dire che siamo solo 13 estranei che hanno vissuto insieme tre settimane e che hanno appena grattato la superficie delle vite altrui, ma sentandosi galvanizzati pensano che questa sensazione di “familiarità” possa durare per sempre. Che in un tempo e in un luogo differenti, insieme, saremmo stati un disastro.
Io non so com’è davvero.

“Quando hai solo 18 anni quante cose che non sai…” cantava il buon Luciano.

Forse sono solo in un periodo che mi permette di credere ai tanti “sempre” della vita. Oppure ho trovato davvero un’altra famiglia. Una famiglia che anche questa volta non ho scelto io: ci sono inciampata dentro con tutta la voglia di vivere che avevo. È stata però una famiglia che mi ha sempre fatto sentire a casa, in ogni luogo, perché con il cuore c’eravamo, per davvero.

Forse “FAMIGLIA” significa molto semplicemente trovare qualcuno che, non importa come sia andata la giornata, alla fine di essa sia ancora lì seduto con te per un altro SA7TEN!
Martina P.



Stitch: “Stitch deve salire a bordo? Stitch può salutare?”
Capitano: “Va bene, si…”
S: “Grazie”
C: “Ma chi siete voi?”
S: “Questa è mia famiglia. L’ho trovata per conto mio. È piccola e disastrata, ma bella… Si, molto bella.”

https://www.youtube.com/watch?v=BGMa3QWlmAQ






Federico
Elena
Valentina



Chiara

Anna (Sardu)



Rubina




Mariairene
Francesca
Stefano
Martina
Erica

Michela

An(Ni)na




lunedì 15 settembre 2014

LA BOLIVIA PERIFERICA: Bisognerà pur iniziare da qualche parte??

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Uspha Uspha, periferia sud di Cochabamba, qualche cespuglio e poche timide piante di eucalipto spuntano tra aride colline. Questa è la zona dove intere famiglie arrivano dalle campagne rincorrendo il sogno di una vita migliore in città. Sono costretti a vivere in periferia in casupole di fango e di mattoni senza fornitura di acqua e gas che vengono distribuiti da autocisterne e camion carichi di bombole. L’acqua viene venduta a caro prezzo e conservata in cisterne di plastica; ricordo dei ragazzi seduti ai bordi della strada che, notato l’arrivo dell’autocisterna, gli corsero incontro gridando “agua! agua!”.

Qui i legami famigliari si sfaldano, i genitori passano la giornata a guadagnare qualche soldo in città e i bambini si trovano a dover badare a se stessi sin da subito, il risultato è che stanno per strada a fare qualsiasi cosa mostrando una grande solidarietà fra di loro che tuttavia spesso non basta. I loro pasti sono scarsi ed irregolari, è per questo che il parroco locale accompagnato da parecchi volontari ha deciso di costruire una struttura e destinarla come mensa che provvede a distribuire pasti gratuiti ai più piccoli. Una parte è poi utilizzata dai bambini e i ragazzi per i compiti, lo studio e più in generale come una sorta di “centro di aggregazione”. L’idea era buona e sin da subito, vista la vastità del territorio, sono nati altri centri simili, qui i bambini e i ragazzi studiano, giocano e si divertono con volontari boliviani e non che tentano inoltre di insegnare loro un tipo di educazione diversa di quella da società macista boliviana, un’educazione più “morbida” dove un bambino si senta amato, cosa che sembra così difficile in questo paese.
Tutto questo è poco rispetto a ciò che ci sarebbe da fare ammette spesso chi lavora in questo progetto…Ma da qualche parte bisogna cominciare, non credete??






Gianluca

giovedì 11 settembre 2014

DJIBOUTI - ITALIA: la partita di pallone

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Il mio racconto parte dall'immagine che mi si prospetta affacciandomi alla finestra della mia stanza, nella nostra casa gibutina.
Non è il luogo cardine della nostra esperienza: non è il Centro Caritas con i suoi (e un pochino anche nostri) amati bimbi; non è il villaggio di Ripta con i suoi mille colori nel deserto, né la cittadina di Ali Sabieh con le sue indimenticabili Sisters.
         

                                   
In queste tre settimane molte volte mi fermo davanti a quella finestra.
Un primo momento è all'arrivo. Il primo pensiero, ammirando la vista, è sicuramente di stupore: una spiaggia lunghissima, un mare grigio-azzurro, assolutamente piatto.
Ma ciò che mi colpisce non sono né il colore del mare né l’ampiezza della spiaggia.
Seduti, sdraiati, in piedi, si notano centinaia di ragazzi, intenti a trascorrere il loro tempo tra chiacchiere, capriole, tuffi e partite di pallone.
E così, mentre i nostri giorni trascorrono tra giochi, danze e qualche piccola medicazione al Centro Caritas, io il pomeriggio mi ritaglio qualche minuto per ammirare quella “vista”.
Mi affascina “sbirciare” la vita quotidiana dei ragazzi, che giorno dopo giorno mi dà occasione per nuove riflessioni.
Loro non mi vedono, non mi notano minimamente e questo fa sì che quella finestra diventi per me una sorta di “macchina da presa”, che crea però un distacco dalla realtà, che in qualche modo mi tiene lontano da quei ragazzi.
Non passa molto tempo e finalmente, decidiamo di trascorrere anche noi un pomeriggio sulla spiaggia, organizzando una partita di calcio (abbastanza improvvisata) con i pochi ragazzi che siamo riusciti ad avvisare.
Porte fatte con le samaras (infradito), centrocampo immaginario e regole di gioco alla “Jean Vajean”!
Da una partita “7 contro 7”, in men che non si dica si arriva ad un “tutti contro tutti” (ottanta contro ottanta!).
Corse da una parte all’altra del campo, calci agli stinchi e palloni mancati.
Per loro io sono Silva (logicamente solo per la somiglianza nel nome!), in campo abbiamo Pirlo, Buffon e persino Ozil.
Ma che emozione! Finalmente abbiamo i piedi sporchi, neri. Neri, proprio come i loro!
E quelle partite si ripetono “tutti” i giorni (ormai la voce si è sparsa: i bianchi sono sulla spiaggia a giocare! Le partite cominciano già senza formazioni, impossibile dividere in squadre le decine di ragazzi).
Più passano i giorni, più ci avviciniamo al giorno del rientro in Italia e i momenti passati alla finestra evocano in me emozioni sempre più forti.
Non guardo più dall’esterno, da “dietro le quinte”: ci siamo messi in gioco, ci siamo sporcati mani e piedi!
E i ragazzi che prima guardavo da lontano, nascosta dietro la mia finestra, ora sono lì al mio fianco, ora corro con loro dietro quel pallone.
Qualcuno ha definito spiaggia di Djibouti “il più bel campo da calcio del mondo”. Lo confermo, ed io, fiera, posso dire di aver avuto l’onore di giocare su quel campo, con i nostri ragazzi e con i miei fantastici compagni di avventura.



Cosa di tutto questo sia un racconto dettagliato della realtà o una semplice metafora dei miei 21 giorni gibutini non è dato sapersi. Lo custodisco gelosamente nel mio cuore!

Silvia