mercoledì 31 agosto 2016

Una Beirut senza schemi

Sabato 6 e 12 Agosto 2016

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L’autista del taxi numero 31 è decisamente il più spericolato. Per le vie di Beirut si rischia la vita a ogni curva. I semafori, le corsie, i sensi unici sono tutte convenzioni occasionali. Ridicolo rispettarle. Tra un sorpasso a destra a novanta all’ora in pieno centro abitato e continui incidenti sventati per un pelo, si sfreccia tra macchine scassate, pulmini strapieni di gente e pedoni temerari.
Il service è il modo più diffuso ed economico per girare per il libano: le macchine con la targa rossa sono taxi che raccolgono più persone dirette nella stessa direzione. Sono ovunque e chiunque li guida, tendenzialmente uomini non troppo discreti che usano WhatsApp e Candy Crush dall’inizio alla fine della corsa, amanti dei rally con gli altri taxi e dell’aria condizionata gelida. Il clacson è l’intercalare costante di qualsiasi viaggio col service. Si suona per offrire un passaggio ai pedoni, per annunciare che si sta per passare, per salutare un altro taxi, per esprimere apprezzamento per qualsiasi forma di sesso femminile, per passare il tempo. Non sai se concentrarti sul paesaggio, sui passeggeri estranei, sulla musica araba, sull’interminabile serie di potenziali scontri mortali o sull’autista.
Nel caso del taxi numero 31, indubbiamente l’attenzione se la guadagna tutta l’autista.
È un armeno sulla sessantina, con pochi capelli bianchi che spiccano sulla carnagione olivastra.  I vispi occhi  azzurri guizzano continuamente tra noi passeggeri e la strada. Scherza e ride come un pazzo tutto il tempo, senza timore di mettere in mostra quella scarsa dozzina di denti che gli rimangono in bocca. Io e i miei compagni di viaggio parliamo un po’ con lui anche se è impossibile avere una conversazione sensata senza neanche una lingua in comune. Si presenta. Non ricordo il suo nome. Non lo ricordo perché ne ha tre. Un nome armeno, uno arabo e uno francese. Tre nomi per una sola persona. Tre persone per una sola anima.
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A Beirut è così.

In Libano non c’è niente di certo. Puoi programmare il service per le 9 ma non sarai mai sicuro che il taxi arrivi prima di un’ora di ritardo. Puoi vedere un semaforo rosso ma non è detto che l’autista freni. Puoi incontrare un uomo ma non sarai mai certo di chi sia. Di tutte i migliaia di volti in cui ti imbatti per Beirut, non sai se gli occhi che ti scrutano appartengano a un libanese o a un siriano o a un palestinese, ad una semplice donna di colore o ad una migrant worker sfruttata, ad un maronita o a uno sciita o a un sunnita.

Ti muovi in un aggrovigliarsi di identità incerte, di maschere e volti con troppi nomi. Attento a non perderti.

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 Puoi cercare rifugio, uno scoglio sicuro nella solidità dei palazzi della città. Ma non ci riuscirai. Provaci se vuoi, ma scoprirai che l’apparenza inganna davvero: una casa trivellata può rivelarsi un futuro museo (http://www.beitbeirut.org/english/thehouseen.html) così come un parcheggio si può scoprire essere una ex linea di demarcazione che separava le fazioni della guerra civile (la Green Line).
Il centro di Beirut è deserto. Dove prima della guerra civile si snodavano i vicoli del suk, sorgono costosi negozi con prezzi improponibili in palazzi modernissimi, praticamente disabitati. La maggior parte degli edifici storici è stata espropriata, abbattuta e sostituita dalle costruzioni all’avanguardia della ricchissima compagnia edile di Hariri, Solidere. Architettura perfetta, se non fosse completamente inutilizzata. Vuota.

 Un’area è presidiata e l’esercito fa passare solo i turisti. In giro non si incontra anima viva, solo noi e i piccioni. Tra una moschea e una chiesa si innalza una torre dell’orologio in antica pietra rossastra. Orologio firmato Rolex. C’è un silenzio incredibile in confronto al normale frastuono di clacson, voci e sgommate. Nessun richiamo di muezzin e nessuna campana rintoccare. Sembra che anche l’aria sia un po’meno inquinata. Però neanche la minima sensazione di quiete. Nessuna pace, nel cuore di una città angosciata.

Niente certezze in una Beirut fatta di quartieri sciiti malfamati e un lungomare costellato di yacht.
Case con bar di lusso al piano terra e martoriate dai proiettili della guerra civile al primo piano.
Ragazzi con i costumi fluorescenti che fanno il bagno tra i rifiuti gettati tra gli scogli lungo la Corniche e bambinetti che ti supplicano di farti lucidare le scarpe.
Il profumo dolciastro degli sbuffi di vapore dal narghilè e il tanfo di rifiuti bruciati che impregna l’aria già densa di smog.
Negozietti di manaish allo zatar e Mc Donalds.
Risate scatenata dalla dabke ballata coi siriani in un locale affollato e la macabra danza delle facce dei giovani martiri di Hezbollah su fogli appesi ai lampioni.

Dicono che per non perderti in un Paese straniero devi lasciarti trasportare dalla sua cultura, cambiare prospettiva, schemi interpretativi. 
Ma a Beirut non ci sono schemi.

Claudia

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