mercoledì 31 agosto 2016

Una Beirut senza schemi

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Sabato 6 e 12 Agosto 2016

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L’autista del taxi numero 31 è decisamente il più spericolato. Per le vie di Beirut si rischia la vita a ogni curva. I semafori, le corsie, i sensi unici sono tutte convenzioni occasionali. Ridicolo rispettarle. Tra un sorpasso a destra a novanta all’ora in pieno centro abitato e continui incidenti sventati per un pelo, si sfreccia tra macchine scassate, pulmini strapieni di gente e pedoni temerari.
Il service è il modo più diffuso ed economico per girare per il libano: le macchine con la targa rossa sono taxi che raccolgono più persone dirette nella stessa direzione. Sono ovunque e chiunque li guida, tendenzialmente uomini non troppo discreti che usano WhatsApp e Candy Crush dall’inizio alla fine della corsa, amanti dei rally con gli altri taxi e dell’aria condizionata gelida. Il clacson è l’intercalare costante di qualsiasi viaggio col service. Si suona per offrire un passaggio ai pedoni, per annunciare che si sta per passare, per salutare un altro taxi, per esprimere apprezzamento per qualsiasi forma di sesso femminile, per passare il tempo. Non sai se concentrarti sul paesaggio, sui passeggeri estranei, sulla musica araba, sull’interminabile serie di potenziali scontri mortali o sull’autista.
Nel caso del taxi numero 31, indubbiamente l’attenzione se la guadagna tutta l’autista.
È un armeno sulla sessantina, con pochi capelli bianchi che spiccano sulla carnagione olivastra.  I vispi occhi  azzurri guizzano continuamente tra noi passeggeri e la strada. Scherza e ride come un pazzo tutto il tempo, senza timore di mettere in mostra quella scarsa dozzina di denti che gli rimangono in bocca. Io e i miei compagni di viaggio parliamo un po’ con lui anche se è impossibile avere una conversazione sensata senza neanche una lingua in comune. Si presenta. Non ricordo il suo nome. Non lo ricordo perché ne ha tre. Un nome armeno, uno arabo e uno francese. Tre nomi per una sola persona. Tre persone per una sola anima.
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A Beirut è così.

In Libano non c’è niente di certo. Puoi programmare il service per le 9 ma non sarai mai sicuro che il taxi arrivi prima di un’ora di ritardo. Puoi vedere un semaforo rosso ma non è detto che l’autista freni. Puoi incontrare un uomo ma non sarai mai certo di chi sia. Di tutte i migliaia di volti in cui ti imbatti per Beirut, non sai se gli occhi che ti scrutano appartengano a un libanese o a un siriano o a un palestinese, ad una semplice donna di colore o ad una migrant worker sfruttata, ad un maronita o a uno sciita o a un sunnita.

Ti muovi in un aggrovigliarsi di identità incerte, di maschere e volti con troppi nomi. Attento a non perderti.

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 Puoi cercare rifugio, uno scoglio sicuro nella solidità dei palazzi della città. Ma non ci riuscirai. Provaci se vuoi, ma scoprirai che l’apparenza inganna davvero: una casa trivellata può rivelarsi un futuro museo (http://www.beitbeirut.org/english/thehouseen.html) così come un parcheggio si può scoprire essere una ex linea di demarcazione che separava le fazioni della guerra civile (la Green Line).
Il centro di Beirut è deserto. Dove prima della guerra civile si snodavano i vicoli del suk, sorgono costosi negozi con prezzi improponibili in palazzi modernissimi, praticamente disabitati. La maggior parte degli edifici storici è stata espropriata, abbattuta e sostituita dalle costruzioni all’avanguardia della ricchissima compagnia edile di Hariri, Solidere. Architettura perfetta, se non fosse completamente inutilizzata. Vuota.

 Un’area è presidiata e l’esercito fa passare solo i turisti. In giro non si incontra anima viva, solo noi e i piccioni. Tra una moschea e una chiesa si innalza una torre dell’orologio in antica pietra rossastra. Orologio firmato Rolex. C’è un silenzio incredibile in confronto al normale frastuono di clacson, voci e sgommate. Nessun richiamo di muezzin e nessuna campana rintoccare. Sembra che anche l’aria sia un po’meno inquinata. Però neanche la minima sensazione di quiete. Nessuna pace, nel cuore di una città angosciata.

Niente certezze in una Beirut fatta di quartieri sciiti malfamati e un lungomare costellato di yacht.
Case con bar di lusso al piano terra e martoriate dai proiettili della guerra civile al primo piano.
Ragazzi con i costumi fluorescenti che fanno il bagno tra i rifiuti gettati tra gli scogli lungo la Corniche e bambinetti che ti supplicano di farti lucidare le scarpe.
Il profumo dolciastro degli sbuffi di vapore dal narghilè e il tanfo di rifiuti bruciati che impregna l’aria già densa di smog.
Negozietti di manaish allo zatar e Mc Donalds.
Risate scatenata dalla dabke ballata coi siriani in un locale affollato e la macabra danza delle facce dei giovani martiri di Hezbollah su fogli appesi ai lampioni.

Dicono che per non perderti in un Paese straniero devi lasciarti trasportare dalla sua cultura, cambiare prospettiva, schemi interpretativi. 
Ma a Beirut non ci sono schemi.

Claudia

Marocco: un dono che ti cambia la vita

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“Si sopravvive di ciò che si riceve, ma si vive di ciò che si dona”.
Questo è uno dei tanti aforismi che mia mamma ripete in continuazione, ma questa breve frase è diventata anche il filo conduttore del mio cantiere in Marocco.

Sono state tre settimane molto diverse una dall’altra in cui abbiamo assaporato aspetti diversi di quelle che possono essere la vita e la cultura marocchine, abbiamo visto posti, città e paesaggi infinitamente variegati e abbiamo incontrato tantissime persone, ognuna con la sua storia, arrivate in Marocco per ragioni differenti, ma tutte pronte a condividere qualcosa di loro, sia con noi cantieristi attraverso i loro racconti, sia con le persone con cui si ritrovano a vivere e convivere ogni giorno.

Ripenso a suor Inma e a Monica, a capo dei centri di accoglienza migranti rispettivamente di Tangeri e Rabat, a Eduard di Caritas Marocco a don Matteo della parrocchia di Fes e a Jackson, camerunense incontrato a Meknes; attraverso le loro testimonianze ci hanno avvicinato un po’ a quella che è la realtà dei migranti in Marocco e ci hanno emozionato e affascinato raccontandoci di come ogni giorno si danno da fare puntando tutto su quello che è il valore della persona che si trovano davanti, elevando la sua dignità in quanto uomo prima che migrante.



Mi tornano in mente, poi, le figure di frate Joel, di frate Natale e delle piccole sorelle di Gesù di Ceuta e Fes; rivivono in me i loro racconti su una Chiesa minoritaria, che si fa piccola piccola e si intrufola senza prepotenza in un paese per il 99% islamico in cui il re stesso è il capo della religione. È, questa, una chiesa umile, che vive con gli ultimi e con le minoranze ma che allo stesso tempo è sempre aperta a un dialogo e uno scambio con l’altro e che si mette al servizio di chi ne ha più bisogno. Ascolto e rispetto reciproci, sono queste le basi per un dialogo tra religioni e culture diverse.



Rivivo, infine, con gioia, la settimana passata a Tatiuin, villaggio berbero sperduto nel nulla in cui ho potuto sperimentare la grandezza dell’animo umano. Ho ben vividi nella memoria i sorrisi e gli occhioni luccicanti dei bambini di Tatiuin felici solo per il fatto che noi fossimo lì per loro e con loro. Risento ancora i suoni dei tamburi instancabili ai cui battiti abbiamo ballato e cantato insieme alla sindachessa, ai ragazzi del villaggio e al gruppo di spagnoli chi ci siamo ritrovati su. Sorrido ancora a ripensare a Fatima Zahra, alla sua dolcezza e al suo impegno e dedizione verso i ragazzi e, in fondo, ricordo con della tenerezza anche Khadija, generalessa dalla scorza dura che, però, si dà un gran daffare insieme a Fatima Zahra e Hasnae. Come dimenticare, poi, suor Barbara, sempre pronta a stabilire l’ordine e il rigore ma anche sempre pronta a dispensare consigli e aiuti – non sempre graditi. Ripenso alla povertà che ho visto ma alla infinita generosità e gratuità di chi, pur non avendo molto ti dona con cuore quel poco che ha.


Infine non posso non nominare i miei compagni di avventura, anche loro attaccati a quel mio filo che parte dal 31 luglio in aeroporto e che ancora non è terminato. Anche loro, come tutte le persone che abbiamo incontrato, hanno donato qualcosa di sé, il loro tempo per cominciare, la loro voglia di fare, di rischiare, il loro mettersi in gioco e in discussione, la loro gioia e, perché no, la loro pazzia. I loro dubbi, le loro domande, le loro critiche e disapprovazioni . Hanno donato e ricevuto e donato di nuovo. Perché è così che funziona quando ti spendi per qualcuno, inevitabilmente qualcosa ti ritorna indietro ed è così che la tua vita può arricchirsi di sfumature nuove a cui magari non avevi neanche pensato. Quindi grazie Bea, Stef, Fefa, Franci, Dade, Cate, Simo, Sere, don Luca e Richi.


Michela

martedì 30 agosto 2016

Kenya, Mombasa: Lettera all'Africa

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Cara Africa, 

sono passati ormai parecchi giorni dal mio ritorno qui in Italia, ma il pensiero corre così tante volte a te, che mi sembra di avere dimenticato lì qualche pezzo di cuore e mente. 
Hai presente quando si dice “un incontro che ti ha cambiato la vita”? Ecco, questo è capitato a me nel conoscerti. Non che prima non avessi mai sentito parlare di te: lezioni di geografia a scuola, testimonianze di volontari o di semplici viaggiatori avevano fatto sì che dentro di me si formasse una idea del tuo continente non molto distante dalla realtà che ho visto. Ma come potevo immaginarmi quanto mi avrebbero conquistato quei bambini, che nel vederci ci correvano incontro urlando “wazungu” (“bianchi” per la lingua locale), dandoci quel poco che avevano e sfoderando il loro sorriso migliore? Come potevo pensare alle emozioni provate nel vedere per la prima volta tanta povertà e nel comprendere quello che i miei nonni fin da piccola hanno provato a raccontarmi della loro infanzia? Come potevo immaginare la rabbia che mi ha assalito, quando ho visitato villaggi in cui l’acqua è considerata la ricchezza e il bene maggiore? Chi mi avrebbe potuto spiegare quella gioia che la domenica trasudava da ogni strada sterrata, nell’incedere di ogni uomo, donna, bambino, nel loro abito migliore, verso la propria Chiesa e il proprio Dio?
Nessuno poteva immaginare tutto questo. Perché io di te, Africa, sapevo tante cose, ma non le avevo mai vissute sulla mia pelle. È per questo che sono partita con l’idea di aiutare, di dare, di trasmettere, di insegnare. Ma la vera sorpresa è stata quella di scoprire che ogni giorno erano le persone incontrate che mi aiutavano, insegnavano, trasmettevano. 

Come al rientro da ogni esperienza significativa, ho pensato per giorni ad un oggetto che potesse rappresentare e ricordarmi questo viaggio nel tuo continente. Un abito colorato? Un portachiavi di perline? Un bracciale regalato dai bambini? Niente di tutto questo era in grado di restituirmi la complessità e grandezza del nostro incontro. Poi i miei occhi si sono posati su quel paio di scarpe indossate in quei giorni e che prima della partenza avevo deciso di eliminare al ritorno, in quanto ormai troppo usurate. Grazie a loro, avevo sorvolato metà mondo, toccato per la prima volta un nuovo continente, attraversato la melma degli slums, giocato le partite di pallone più divertenti della mia vita, calpestato quella terra rossa così bella ma anche spezzata dal caldo e dalla siccità. Non avevo più dubbi: loro serbavano traccia di tutto questo e non c’era niente di più ricco a cui potevo attaccarmi per far sì che questi ricordi diventassero vita di ogni giorno. Sono le esperienze che viviamo, le terre che tocchiamo, i passi che facciamo verso le persone, verso terre sconosciute, fuori dal nostro io, che ci rendono persone più ricche e meno chiuse nel “bozzolo” che siamo, persone più “umane”.

Per questo ti ringrazio, Africa, per essere stata una terra che mi è rimasta negli occhi e nel cuore. Per avermi insegnato che l’importante è esserci e non “fare”. Per avermi aiutata a togliere il tanto “superfluo”, in cui la mia vita iniziava a galleggiare. Per avermi insegnato che il segreto per un una vita felice è il fare spazio quando gli spazi sono già pieni, è il condividere il poco che abbiamo, è saper vedere il sole dove sembra che le tenebre avvolgano ogni cosa. 
Tornerò da te, prima o poi. È una promessa. Nel frattempo, anche se è poco, continuerò a parlare di tutto ciò che mi hai insegnato e a portare nel cuore, custodendolo come qualcosa di prezioso, ogni sorriso, ogni persona, ogni volto incontrato.

Un grazie infinito, 

Elena


lunedì 29 agosto 2016

MOLDOVA: Il paradigma della doccia

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Sono tornata dalla Moldova da ormai due settimane e ho pensato a lungo se valesse la pena scrivere ancora qualcosa su questo blog. 
Tanti altri prima di me hanno parlato del Mal di Moldova, dell'importanza e della difficoltà di tornare, di tutte le domande che ci siamo posti e a cui è impossibile trovare risposta e della volontà di non lasciare che quest'esperienza diventi solo un'altra fotografia incorniciata. Tutte cose che condivido.
Stamattina ho però (ri)trovato un mio vecchio diario e la data mi ha fatto sorridere: novembre 2006, i miei quattordici anni. Mi sono seduta a leggere dei sogni, desideri e pensieri che avevo allora e sono rimasta piacevolmente scioccata nel vedere che molti non sono cambiati.
Cos'è cambiato allora?
A quei quattordici anni se ne sono aggiunti altri dieci di esperienze che, sebbene mi abbiano lasciato me stessa, mi hanno insegnato lezioni di vita, ma non so ancora del tutto come mi abbiano modificato.
Uno di questi momenti è la Moldova.

A chi me lo chiede provo a raccontare, ma la Moldova è fatta di paesaggi e cieli stellati, persone e momenti che sono difficili da descrivere a parole. Giuro che mi sforzo di raccontare con ordine quello che ho visto, ma mi rendo conto che il flusso di coscienza rimane lo stile più adatto. James Joyce sarebbe fiero di me!
Qualche giorno fa, allora, ho provato a fare un esperimento per vedere di spiegarmi meglio. Ho mostrato a F. queste due fotografie:


"Sono le docce e lo spogliatoio di Hîncești", le ho spiegato, "ma sono soprattutto il simbolo di quello che sono stati questi venti giorni."
Nel mio diario ho scritto più volte dell'esperienza traumatica che è stato entrarvici la sera alle nove, stremata, per lavare via il sudore, la stanchezza e la fatica della giornata passata tra bambini, internat e riunioni infinite per programmare il giorno seguente.
Ne ho descritto l'odore di uovo marcio e il freddo che entrava nelle ossa se al mattino non c'era stato abbastanza sole; eppure non ho dimenticato di annotare le canzoni stonate cantate con Irene nella cabina di fianco: metodi casalinghi per ignorare la puzza, il freddo e chissà quali bisci([1]) striscianti intorno a noi. Ho riportato anche i discorsi a cuore aperto con Silvietta e le risate con Anna e Martinî, gli sfoghi di e con Giulia e tutti quegli altri momenti che ho vissuto tra quelle assi di legno.

Il tempo, si sa, aiuta a dimenticare il lato negativo di tutto e già ripenso con nostalgica tenerezza all'acqua viscida della Moldova. 
Quello che allora penso di aver imparato nei miei quasi quattordici anni più dieci di esperienza è che si può imparare col tempo a diventare persone che vogliono trovare ovunque almeno un dettaglio positivo.
O almeno, ho capito che voglio provare ad esserlo.
Riguardando la foto, quindi, si può vedere la doccia infernale di Hîncești per quella che è fisicamente: quattro assi di legno con un po' di paglia, da cui sgorga un'acqua puzzolente e fredda.
Oppure si può vederla per quello che rappresenta: un lusso, qualcosa di più del catino che ci era stato preventivato. Soprattutto, un capolavoro di ingegneria del parinte([2]) Eugeniu.
Cercherò di dimenticare la betoniera antiestetica piazzata in mezzo al cortile dietro la chiesa, il freddo e gli insetti; vorrò ricordare piuttosto il gesto del prete che, per ringraziarci e accoglierci al meglio, ha preso due canne dell'acqua, qualche asse di legno, della paglia, una vecchia coperta, dei soffioni e un bidone dell'acqua blu, li ha assemblati con ingegno e ha creato per noi una doccia in cui lavarci a sera sulle note di una canzone. 
Questa:


Silvia (la sciura Brambilla [3])


 [1] animaletti generici
 [2] prete ortodosso
 [3] come verrò ricordata dai moldavi grazie al nome sulla tazza

Bolivia: quando un Hogar è una Famiglia!

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Ormai mancano pochissimi giorni alla partenza 
(o al ritorno, in base a come lo si voglia vedere!)
Ecco come abbiamo passato la giornata di ieri, fra giochi, risate, saluti e quel pizzico di commozione che rende tutto agrodolce...
L'hogar dove vivono queste bambine è gestito dalle suore della Virgen del Rosario ed è davvero una Famiglia: per quei pochi giorni che lo abbiamo vissuto, ci siamo sentite anche noi parte di ciò.
 
Ed ora non resta che riporre in una tasca del mio cuore tutto quello che questa bellissima giornata mi ha donato...
...aspettando di trovare le parole per scrivere il mio ultimo post!

P.S.: le bambine sono le autrici della maggior parte delle riprese del video, anche se erano convinte di star scattando foto: non si erano rese conto che la macchina fotografica era in modalità "video"...!
Solo una volta a casa io e Francesca ci siamo rese conto di ciò...! Ed è stato simpaticissimo! 

Hasta luego,
Luci

Dall’altra parte della barricata

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N.B. Questo post nasce a giugno, è stato poi modificato a luglio, trova luce adesso.

"Da sconfinati.. ad accoglienti!
Per chi sconfina, c’è sempre qualcuno che accoglie (o almeno si spera così) per ogni cantierista che parte, c’è sempre un coordinatore che lo aspetta e che ha preparato i lavori.

Scrivo da Mombasa, a poche ore di distanza dall’arrivo dei cantieristi, anche se è un post che nasce dopo un paio di settimane dal rientro milanese per la formazione cantieri, appunto..  e mi trovo a buttare giù qualche ricordo di quei giorni e qualche considerazione personale..

esemplare di SCE durante il duro lavoro d'ufficio in preparazione ai cantieri
Cosa ricordo della formazione? Dopo aver lavorato in ufficio alla formazione dei cantieristi stessi, finalmente si sono palesati i giovani che stiamo per accogliere nei paesi di cui noi siamo ancora ospiti.
Tra giochi di ruolo, domande, prove comunicazione, risposte, una coordinatrice persa nel cuore della notte nella provincia milanese mentre si provava a darle indicazioni stradali, qualcuno che ha avuto il coraggio di giocare a pallavolo dalle 7.45 di domenica mattina, i sermoni del buon don Daniele, chiamate intercontinentali notturne, e chipiùnehapiùnemetta, circa 60 giovani si sono messi in discussione.  



Gli OLP che provano a dare indicazioni stradali nel cuore della notte

Ho provato a scambiare due chiacchiere con un po’ di cantieristi.. chi tra una pausa e l’altra studiava per la maturità (ed è anche uscita una traccia sui confini!!), chi fantasticava sul suo cantiere, chi ha puntato a fare gruppo, chi a conoscere gli altri.. veramente una grande varietà di giovani. Di una gioventù BELLA e curiosa. L’ho percepita quest’ansia di partenza. Ognuno ha le sue motivazioni, ciascuno si metterà in gioco per quello che vorrà dare, ma tutti accumunati da questa voglia di partire. Da un’estate diversa, che non dico cambierà la vita, ma che getterà un semino se lo si vorrà coltivare.

Che bello.. e che responsabilità!
Definirei il mio ruolo come meta servizio: il servizio nel servizio e a servizio (sì, se non s’è capito “servizio” mi piace un sacco!!).
Sono dall’altra parte della barricata e le emozioni per certi versi sono simili.. anche qui ci sono attese, aspettative, entusiasmo, qualche paura..

E sono grata per quest’opportunità, perché sarà un mettersi alla prova ulteriormente, sarà un rivedersi nei ragazzi, perché se uno parte ha sempre un motivo, e spesso i motivi si assomigliano, ma poi si perdono, diventano sfumati. Sarà un rileggersi.

Non saprei dare una definizione di accoglienza. Per me accogliente è chi mi fa sentire a casa, è chi non mi sta davanti come se fossi all’esame di procedura penale pronto a bocciarmi; è chi mi ascolta e un po’ mi coccola; chi mi fa sentire considerato, amato.
“Ci vuole un giardiniere che ama per far sbocciare una rosa”.
Ecco, penso che in questa occasione io sia chiamata ad essere un po’ il giardiniere, con una grande responsabilità. Perché questi ragazzi mi sono stati affidati. Non ci siamo scelti. Ma non per questo il valore diminuisce.
Allora, pronti a sconfinare!!” 
                                          








Sono passate due settimane dalla fine del cantiere, e mancano tre giorni al mio rientro definitivo in Italia. Leggo i post dei cantieristi oramai tornati alla base e mi sembra che ci siano ancora tante emozioni in circolo, tante domande aperte, entusiasmo per quanto vissuto e un pizzico di malinconia.

Il tempo è tiranno, devo scrivere le valutazioni del cantiere e i report.
Le idee sono tante, confuse.

Il cantiere Mombasa è stato ricco di emozioni, di tante domande a cui chissà se ci sarà risposta, di confronti, di sane risate, di discorsi profondi e meno intensi, di lavoro e fatica, di novità. 
Ognuno ha saputo metterci del suo per costruire insieme ed in armonia questo cantiere. 
cantieristi Mombasa stremati dalle fatiche africane
E ne sono felice.   



Ancora non c’è stato tempo di far sedimentare il vissuto e dargli la giusta collocazione.
Non so se ciascuno ha ritrovato le sue motivazioni, se si è riuscito a dare qualche risposta.. ma, poi col tempo (perché le cose belle richiedono tempo!!) si saprà dare a questa esperienza il valore ed il significato che più si ritiene appropriato.

illustrazione di Maria Silva

Tuttavia, io spero -  ma lo so quasi per certo - che per tutti i cantieristi sia stata un’esperienza indelebile, di quelle che lasciano il segno, nel bene e nel male, e che a loro volta si trasformano in segno tangibile: il segno di una presenza, nella realtà in cui ci si trova, che ha sperimentato – seppur per un brevissimo tempo – la diversità, che ha provato ad andare oltre, per mettersi a servizio gratuitamente, che ha sconfinato e ha ancora gli occhi pieni di bellezza.
Mi auguro che sia stata una di quelle esperienze che, anche a distanza di tempo, possa dare quel sapore di buono alla vita. 
Mi auguro che restino naviganti in grado di guardare le cose un po' in su, un po' in giù, e tutto intorno. 
Mi auguro che possano sbocciare tante rose in grado di effondere profumo intorno..

Angela



Georgia: l'abbraccio di una terra sconosciuta

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"Non parto per cambiare il mondo, parto per cambiare me stesso": questa la frase scritta sulla maglia che Giacomo indossava il giorno in cui siamo arrivate in Georgia. Mi ha colpito, non tanto la frase in sé quanto il fatto che quello era esattamente il motivo per cui ero partita io.

Non sono capace di descrivere le sensazioni, ma oggi ho riletto per intero, tutto d'un fiato, il mio "diario di viaggio". E mentre i miei occhi scorrevano veloci sopra le righe scritte quelle sere in Georgia appena prima di addormentarmi sfinita, nella mia mente ricompariva il sorriso enorme di mama Misha nel momento in cui aveva trovato le caramelle anche per me nonostante le mie allergie; e sentivo di nuovo il calore e l'entusiasmo degli "animatorebi" di Vale la prima sera, quando ci hanno sommerso di stelle filanti e coriandoli scintillanti; provavo ancora una volta quella tenerezza infinita che ti può dare solo il sorriso di un bimbo che ti prende per mano e ti mostra il suo mondo, che non ti eri mai accorta di quanto fosse bello.



Tutte queste emozioni mi hanno travolta come un'orda di ragazzetti scapestrati (ovviamente capeggiati dal seminarista Beqa!!) che cercano di catturarti a "Bulldozer": è inevitabile che ci riescano!! Beh, era decisamente il giorno giusto per scrivere un post... Per fermare sullo schermo l'espressione stupita e divertita di mama Zurab quando gli urlavi "gavigeee!!", il sorriso di mama Darius e Merabi mentre cantavano con i bambini, la gentilezza di Tamazi.
E scrivendo mi rendo conto davvero di quanto queste tre settimane mi abbiano arricchito. Ho fatto fatica in questo cantiere, tanta fatica. E ho scoperto che voglio costruire la mia vita con fatica. Poi alla fine la fatica si dimentica, ma i frutti rimangono.
Ho portato a casa tanto, e sono convinta che tutto questo cambierà qualcosa nella mia vita quotidiana, magari quando non mi innervosirò di fronte alle domande invadenti di mia nonna o quando deciderò di non girarmi dall'altra parte, di non essere ignava.
Non posso dimenticare Lily, la mia "nonna georgiana" per eccellenza, che ci ha aperto le porte della sua casa insegnando a me e a Ilaria che non serve parlare la stessa lingua per capirsi.



Porto nel cuore gli occhi buoni di Mate-Mowgli, che spuntano vivaci sotto il suo casco di capelli neri. Sorrido mentre penso a Maka, alla risata spontanea di Nino e a quella contagiosa di Toke e Shota. Ricorderò sempre lo sguardo furbo e divertito di Martin mentre prepara uno dei suoi scherzi, le lezioni di cultura georgiana di Shota "maximus" e la dolcezza di Tamta e Paolo. Non riesco a non pensare alla follia di quello che è stato il mio branco-famiglia per tre settimane: Jessica, Franci, Liz, Sara, Ila, Katia, Elena, e Giuditta e Giacomo, le nostre due fantastiche guide.




Ho incontrato centinaia di volti, ognuno particolare e unico. 
Sì, sono partita per cambiare me stessa, non per cambiare il mondo. Per essere spugna e assorbire quanto più mi riusciva di una terra che non conoscevo e che non mi conosceva, ma che mi ha accolta tra le sue braccia. 
Una spugna non può prosciugare il mare: ci sono cose che non capivo, che non capisco e che non capirò mai. E di questo sono grata.


Terra insegnami l'umiltà 
come i fiori che sono modesti al loro sbocciare
Terra insegnami il rinnovamento 
come il seme che nasce a primavera 
Terra insegnami a ricordare la gentilezza 
come i campi aridi che trasudano per la pioggia

(tratto dalla preghiera UTE "Terra insegnami")

Didi madloba Sakartvelo
Claudia


Gavige: ho capito
Didi madloba: grazie mille
Sakartvelo: Georgia 

domenica 28 agosto 2016

Una vita da Cochala

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                                                   Cochabamba, ciò che vedo dalla mia finestra

Case, tante. Fango, pietra, mattoni, paglia.
Rosse, gialle, marroni, verde fluo, con motivi floreali o andini. Decisamente e volontariamente Kitsch. In città, in campagna, lungo i fianchi delle montagne, vicino ai fiumi, vicino alle discariche.
Una sola casa, di una sola stanza, un solo letto, sei persone; ma c'è l'elettricità. In ogni caso, niente acqua.

Troppe macchine. Manca il finestrino, i freni stridono, ma perché devi sempre suonare sto clacson?!?
Mai visto automobili che resistono più di vent'anni, forse questa ne avrà anche di più.
Ma non vedi che il semaforo è rosso? Oddio, supera a destra, spintona a sinistra, come avrà fatto a passare in quel buco?
Attenzione ai furti, zaino davanti. Micro, colori, musica, Prince, ma questa è puzza di piedi? Eccola là la gallina! Niente, anche stavolta la portiera non si chiude. “No escupir” (non sputare O_o).
Bajamos por favor!
Cinque posti, sette persone, più l'autista. Rigorosamente radio-taxi, più sicuro...ma durante il giorno anche il primo taxi improvvisato va bene. Ma vendono le targhe?!? no, dai, non passare per il mercato...

Alla Cancha, quanta frutta. Tre tipi diversi di mango e che profumo! Banana, banana rossa, bananitas, platano da friggere; nomi strani come Guayaba, Palta, Chirimoya...buona eh, ma un po' troppo dolce.
Si vende di tutto. Hai bisogno di un lucchetto? C'è! Di un tavolo? Eccolo! Di un flauto di Pan? Ma certo! Francesca in Wonderland.
Ma perché qua tutti devono spingere?
Choclo cocido con quééééso!”, Lucy, ci sta perseguitando!
Basta, per oggi basta Cancha.

Una sfilata, canti, balli, musica, colori. Morenada, Tinku...ma la Chacarera quanto è bella?
Un bloqueo. Guarda, stanno grigliando in mezzo alla strada!
Mannaggia, ora ci tocca farcela tutta a piedi. Ma protestano sempre?

Persone, tantissime.
Il “gringo”, spensierato e felice, cappellino, pantaloncini, macchina fotografica. I'm sorry!
L'argentino, dred, mochilero, collane e braccialetti, simba, un po' altezzoso.
I boliviani “bianchi”, camicia e gioielli, macchina e stivali. Zona nord.
I boliviani “altri”, masticatori seriali di foglie di coca, fascia leopardata sul braccio, divisa scolastica, cerchietto con i brillantini, vestiti rigorosamente attillati con accostamenti di fantasie e colori almeno discutibili, mille tonalità di fuxia, occhi neri e indagatori, sorrisi dorati, tanti capelli e nessun pelato. Strano metodo di corteggiamento/ addescamento (movimento simultaneo delle sopracciglia).
Le Cholitas, gonnellone lunghe e corte, pizzo e colori, cappelli di paglia, sandaletti, trecce nere, qualche baffo in più, qualche dente in meno.
Grida, carretti delle frutta, gomitate nello stomaco; aguayo, dentro un bambino, al seno un altro, per terra un altro ancora. Quechua.
E poi spagnoli, brasiliani, cileni, cinesi, italiani, tedeschi.

...oh, Cochabamba; ti odio o ti amo?

Di certo, VIVA COCHABAMBA MAYLLAPIPIS!

sabato 27 agosto 2016

preparandomi per tornare

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E' tempo di salutare la Georgia...


Come si fa a mettere un anno di vita in una valigia?
Cosa porto a casa? Cosa lascio qua?


La mia valigia è la stessa di un anno fa, ma dentro ci sono dodici mesi di cambiamento.
Persone, incontri, luoghi, sapori, imprevisti, avventure, problemi, esperienze, delusioni, soddisfazioni.


Preparare la valigia per tornare, ma tornare a cosa? Sto vivendo la vita nel modo in cui vorrei?
Quando non sei nella tua solita vita hai tempo per riordinare le priorità, per pensare, per sentire, per ascoltarti, per prendere decisioni. Si vede tutto così da lontano e da fuori che si trova più facilmente la forza e il coraggio  per giudicarlo e analizzarlo.

Decido di mettere questo in valigia, ciò che mi fa sentire diversa da prima. 



LITFIBA - LA MIA VALIGIA


La mia valigia, casa a tracolla,

due occhi, due orecchie, due ruote, due zeta
sogni lontani, avanti dai
parlare e raccontare tutto quello che hai


La mia valigia, casa perfetta,

il massimo dal minimo indispensabile
note e parole, rimedi del cuore
e vivere in viaggio è un atto d'amore


Sui vetri del mare, del mare


Il vento spinge i viaggiatori

nei mille mondi tra dentro e fuori
Nel labirinto dei pensieri
lasciate spazio ai sognatori


La mia valigia, treno dei sogni,

piegati, perfetti, nascosti nel buio
nascosti nel caos, dentro di me
viaggiare è sognare, è un atto d'amore


Il vento spinge i viaggiatori

nei mille mondi tra dentro e fuori
Nel labirinto dei pensieri
lasciate spazio ai sognatori


La mia valigia è dentro, la mia valigia è il vento

Pronta a partire, pronta a tornare
Pronta a deviare di terra e a deviare di mare
La valigia è il mondo
è il mondo da amare


Il vento spinge i viaggiatori

nei mille mondi tra dentro e fuori

La vita è viaggio, è cambiamento

La mia valigia è sempre in movimento


La mia valigia

La mia valigia