lunedì 17 agosto 2015

Nicaragua: "Io ci credo"

Da una pagina del diario di viaggio...
Giorno 6
Ore 24.05 locali

Sono qui da soli 6 giorni eppure mi sembrano passati secoli dalla partenza… Le esperienze, il conoscere un contesto nuovo, con persone nuove, e il doversi adattare riempie ogni momento e lo rende denso, quasi tangibile.
Il tempo sembra ancora più solido da quando siamo arrivati a Nueva Vida.
Dopo il viaggio quasi piacevole, divertente, sul cassone del pick-up di Felix che ci ha portato qui da Managua, appena sceso, mi sono davvero reso conto che avrei avuto a che fare con la povertà estrema.
Non che Managua sia un paradiso, ma l’aria, piena di odore di "basura" e di umanità strisciante, e l’acqua nera che scivola sulla strada in una grande fogna a cielo aperto, e i rumori improvvisi della "ruta" e delle poche scassate macchine che rompono la routine quotidiana della povertà, ti colpiscono immediatamente.
Lo senti, quasi puoi toccare il dolore, l’angoscia, la mancanza di speranza che si muove come un’ombra tra le baracche improvvisate e i cani fantasma. Eppure, arrivare al centro Redes, e al contiguo centro El guis, che ti accolgono nel verde delle piante abitate da una moltitudine di uccelli, geki, insetti, ti fa chiudere di nuovo gli occhi, ti fa razionalizzare la povertà che traspira dai frequentatori del centro: bambini curiosi del colore della tua pelle, donne in attesa del consulto della dottora.


Forse per questo l’esperienza che ci ha fatto fare Teo la prima sera qui ci ha colpito così tanto. Il farsi guidare bendati da un compagno, il farsi accarezzare il volto da mani diverse da quelle a cui sei abituato, e, soprattutto, ascoltare ad occhi chiusi le testimonianze di ex civilisti, ti costringe a riaprire completamente gli occhi, ed il cuore.
Provi a contenere dentro l’angoscia, la disperazione e la rabbia che ti contagiano parola dopo parola, provi a inserirle in uno schema razionale, a controllarle per evitare che ti facciano ancora più male; provi, ma non ce la fai.
C’è chi trova uno sfogo nelle lacrime, che comunque si nascondono dietro gli occhi di tutti, chi fissa un punto vuoto davanti a sé, chi cerca il calore di un abbraccio…  Io ho provato a parlarne, a rispondere alle domande di riflessione poste da Teo, a nascondere negli artifici del linguaggio almeno un poco di quel dolore che invadeva completamente le mie membra.
Ma di fronte a tutta questa disperazione, a questo veloce susseguirsi di vite segnate dalla violenza, dagli abusi trasmessi come un virus di generazione in generazione, dalla droga in cui si rifugia chi non vuole vedere ciò che ha intorno, quale può essere la risposta, il senso la speranza?!?
Una civilista di qualche anno fa ha provato a darla, una risposta, tanto semplice quanto profonda: IO CI CREDO.

Non è, o almeno non è solamente, un credere religioso, in un paese dove la religione strasborda dai cartelloni governativi o dagli autobus scassati coperti di immagini sacre. Non è la fede sensazionalistica e risolutrice di ogni problema, ma con un prezzo, delle tante chiese evangeliche a ogni angolo delle quadre.
E’ credere che ci possa sempre essere un’alternativa, che si ha sempre uno spazio di azione, che, insieme, si possano creare delle opportunità.
Non esistono soluzioni semplici, leggi empiriche da applicare, miracoli improvvisi.
Il credere richiede l’implicarsi profondamente, il mettersi in gioco con tutti i propri limiti, l’accettare l’impossibilità di cambiare radicalmente ciò che ci fa male; ma consiste anche nello sperare di essere un piccolo tassello, anche il più infimo, di un puzzle enorme che qualcuno prima o poi finirà, di essere un filo sottile di una grande ragnatela che non possiamo tessere da soli: la necessità del contatto, della relazione, della solidarietà.

E questa consapevolezza la si tocca, anche solo per poco, quando ci si trova di fronte alla disperazione più profonda, alla povertà più estrema, alla morte. Una reazione di vita, di speranza, di amore e fiducia nell’altro che germoglia solo in queste situazioni può sembrare un paradosso, un ossimoro, come una fonte nel deserto.
Non trovando una soluzione razionale, la mia mente ha fatto riaffiorare i vecchi ricordi di una poesia di Ungaretti, Veglia, scritta dopo aver passato una notte intera in una buca fianco a fianco a un compagno morto. Di fronte alla morte, all’angoscia, alla disperazione, Ungaretti conclude così la sua poesia: NON SONO MAI STATO TANTO ATTACCATO ALLA VITA.



Un abbraccio a tutti.
Niccolò



1 commento:

  1. Bello e come ho detto nel Post "Nicaragua: Marina non cè!" dovreste pubblicare un libro, diario di viaggio che raccolga tutte le vostre esperienze, sentimenti etc.

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