Arrivati alla fine di questi 5 giorni a Rayfoun, lo shelter di Caritas Libano che si occupa dell’accoglienza di (attualmente 100) donne migranti situato a circa 30 km da Beirut, ecco cos’hanno visto i nostri occhi, ascoltato le nostre orecchie e provato i nostri cuori.
Siamo arrivati solo pochi giorni fa, ma ci sembra di essere qui da un secolo.
Il primo impatto è stata la presentazione del centro come se fosse una visita guidata, una vetrina: qui ci sono le camere delle ragazze, qui gli uffici, qui l’aula computer, qui la famiglia irachena, qui la palestra, qui la chiesa (ma la usiamo come deposito).
Passando per i vari spazi, sguardi interrogativi, curiosi, persi, soli incrociavano i nostri occhi già sovraccarichi di novità. Occhi neri e grandi, pelle bianca, olivastra, nera, fucsia, verde, azzurra (ha importanza??).
L’equilibrio è mancato per qualche ora: in che universo siamo capitati? Un gruppo di 7 italiani piombato in un mondo di pochi metri quadri vissuto, SOPRAVVISSUTO, odiato, sopportato da giovani provenienti da Etiopia, Kenya, Filippine, Bangladesh, Togo, Iraq, Siria…Per alcuni potranno essere solo nomi di paesi (chissà dove si trovano sulla cartina geografica?), ma qui, ora, per noi sono diventati volti, storie, abbracci, sorrisi, pezzi di cuore. Un cuore la cui crepa si allarga sempre più ogni volta che una ragazza si lascia trapelare qualche frammento della sua storia. E il puzzle nella nostra immaginazione inizia a prendere forma.
Partiamo dall’ A B C. A Beirut Caritas, oltre a supportare svariate emergenze locali, ci si occupa di aiutare le Domestic Workers, ovvero quelle persone che lasciano il proprio paese per lavorare in un paese straniero, sperando di trovare un salario più alto e delle condizioni migliori. Per le donne, in alcuni casi, questi sogni si trasformano in case-prigioni di libanesi benestanti, in cui sono costrette a lavorare come donne delle pulizie e vengono trattate come prigioniere e schiave (con tutte le ciliegine sulla torta che potete ben immaginare).
Quando alcune di loro riescono a scappare cercano appiglio tramite le ambasciate che le inviano agli shelter. Qui rimangono fino a che non riescono ad ottenere i documenti per il rimpatrio (da poche settimane fino ad un anno).
Provate a immedesimarvi. Immaginate di dover stare chiusi nello stesso posto per un tempo x, lontano da casa, senza mai uscire, senza avere contatti con l’esterno e con unico pensiero: tornare a casa.
Torniamo a noi: in punta di piedi ci siamo inseriti nella quotidianità di questo piccolo universo. Gli operatori dello shelter ci hanno invitati ad organizzare delle attività di svago. Tirando fuori un milione di idee, ognuno con i propri talenti (5 pani e 2 pesci, 7 come noi! ;P ), partendo da braccialetti, cornici, ventagli e collane floreali, siamo passati a murales, canti, balli tradizionali, aerobica, per concludere in bellezza con cucina etnica e sfilata di moda, con tanto di elezione di Miss Shelter 2015.
Siamo stati per loro una sorpresa, una ventata di novità e di aria fresca nella monotonia e solitudine della quotidianità del rifugio. E pensare che sono bastati tre fili colorati e due bolle di sapone per accantonare, anche se per poco, i tristi pensieri.
"E' la prima volta che sono felice qui a Rayfoun”, ci ha confidato commossa Marylin.
Perché siamo partiti per il Libano? Ancora non lo sappiamo, ma per il momento siamo qui. Il tempo per pensare ad una risposta a questa grande domanda ora non ce l’abbiamo; i giorni scorrono, ci sono tante attività da preparare, nuove realtà, nuove storie da scoprire. Siamo sovraccarichi di emozioni, di novità.
Zaino in spalla, domani è un altro giorno.
Cantieristi Lebanon
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